sabato 13 gennaio 2018

Firenze ,le Murate/Brac, con Daria Filardo
Abbiamo incontrato Pietro Gaglianò, studioso dei linguaggi contemporanei e curatore, in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro, Memento. L’ossessione del visibile. In questo nuovo testo, Gaglianò propone una riflessione sui monumenti, sullo spazio pubblico e le estetiche del potere, tracciando una linea di pensiero critica e efficacemente eversiva che mostra la complessità sociale che si riflette nell’opera d’arte.
Intervista a cura di Francesca Biagini
Memento è un libro senza immagini, pur affrontando il tema del visibile e la sua ossessione. Operare una scelta consapevole di questo genere è di per sé un atto non neutrale, fine a generare un  cortocircuito che stimola uno sguardo attuale sul linguaggio verbale  come “… strumento di resistenza attiva…la possibilità di un cambiamento concepito come resistenza all’abuso dell’immaginario” Mi piacerebbe iniziare da questo, partire dalla parola…
Memento, tautologicamente, nasce proprio da un lavoro sulle parole, sulle loro etimologie, sui significati nascosti che giacciono sotto il loro suono, spesso indicativi di stati di soggezione culturale del tutto interiorizzati. Il recupero di un senso critico del linguaggio è, a mio avviso, indispensabile oggi, in una fase di massificazione dell’espressione in cui la semplificazione ha il suono sinistro di un’omologazione senza uguaglianza. La parola coincide con la resistenza perché elaborare un’immagine mentale impone uno sforzo intellettuale e creativo molto più attivo di quello necessario per recepire l’immagine. Riappropriarsi della facoltà critica del linguaggio significa rifiutare che qualcuno descriva il mondo al nostro posto, le sue regole, i suoi valori. E nel vuoto metafisico di un libro senza immagini la mente diventa attiva, creativa, fa a meno del visibile o lo trasforma in esperienza morale.
Parlando del mai compiuto monumento a Costanzo Ciano a Livorno, punto di genesi del tuo libro, enunci un concetto fondamentale sulla  più ampia riflessione nel rapporto tra potere egemonico e volontà popolare. L’assunzione di responsabilità, il “Ci impegniamo, noi e non gli altri” alla Bertolt Brecht, che diventa spunto per problematizzare lo spazio pubblico e le forze che su di esso agiscono.  Qual è, secondo te,  la posizione  dell’artista rispetto a questa assunzione di responsabilità?
La bellissima frase di Brecht che ti ringrazio di aver citato è l’ispirazione per molti dei contromonumenti realizzati soprattutto in Germania nel secondo Novecento per dare vita a una memoria collettiva, ma molteplice e non uniforme, della responsabilità rispetto al nazismo. “Noi e non gli altri” è come dire “non possiamo chiedere a nessuno di ergersi contro l’ingiustizia al nostro posto”, la frase che corona il monumento (a scomparsa) contro il fascismo che Jochen e Esther Gerz hanno realizzato ad Amburgo. La posizione dell’artista forse si trova proprio qui: nel pensare, e nell’aspirazione a far pensare, in un modo autonomo. L’artista può essere un attivista, ma la forma del suo lavoro non può essere meramente dichiarativa, deve contenere oscillazioni e possibilità, senza assertività. La responsabilità dunque risiede nel mantenersi politico nel pensiero e simbolico nelle forme, forma simbolica e funzione sociale.
Carrara,Accademia di Belle Arti, con Gaia Bindi
Carrara, Accademia di Belle Arti, con Gaia Bindi
Com’ è cambiato lo spazio pubblico nella società contemporanea? E quale è, di conseguenza, il nuovo ruolo dei monumenti?
La cultura urbana contemporanea è stata espropriata dello spazio pubblico: si è verificato uno spostamento verso la comunicazione televisiva prima e web poi. Le relazioni spesso nascono e si sviluppano in un ambiente irrelato rispetto al contesto fisico, una dimensione molto funzionale alle dinamiche del capitalismo e della pressione sulle soggettività. La libera azione nello spazio pubblico, d’altro canto, subisce sempre maggiori restrizioni, nel nome della sicurezza, del decoro, di altri discorsi demagogici. In questo smembramento della cultura sociale il monumento tradizionale ha del tutto perso la sua funzione, diventando postumo rispetto a se stesso: così le opere di autori contemporanei nelle piazze non sono altro che “plop art”, decorativa, cosmetica, incapace di produrre pensiero critico e ottimo per la brandizzazione delle città che si dichiarano di riqualificarsi con il contemporaneo. A questo si oppongono molte esperienze, tese alla creazione condivisa di senso, che hanno operato e operano secondo una revisione continua dei processi, degli alfabeti formali, degli esiti che l’arte può assumere quando precipita nella sfera pubblica.
Si sono creati nel nostro paese formati artistici non convenzionali, zone di improvvisazione culturale, in cui il locale è diventato valore aggiunto rispetto al dominio pervasivo e capillare, strutturando le premesse per la rinascita di un senso di comunità. Quali sono stati gli esiti più significativi di queste nuove forme di produzione culturale?
Alcuni artisti attivi negli anni Sessanta e Settanta in Italia sono stati autenticamente pionieri, coltivando in modo spontaneo una relazione con le comunità e gli spazi che mancava in analoghe esperienze d’Europa e degli Stati Uniti. Più recentemente è esemplare l’esempio resistente di Isola Art Project a Milano, tra gli altri, ma la penisola è costellata di progetti che si basano sulla comunità pur mantenendo intatto il senso per la forma simbolica. È interessante rilevare come alcune delle realtà più dinamiche e originali siano periferiche rispetto ai centri principali di produzione contemporanea: tra le altre vorrei citare “A Cielo Aperto”, di Bianco-Valente e Pasquale Campanella, a Latronico, in Basilicata, e Guilmi Art Project, di Lucia Giardino e Chico Bacci, che prende forma da otto anni in un paese di pochissimi abitanti in Abruzzo. La comunità di Guilmi in questi mesi sta agendo per contrastare l’impianto di due centrali a biomasse, un abominio di gestione delle risorse, e forse un senso di appartenenza e di responsabilità del territorio è stato innescato anche dal confronto con gli artisti. Ci tengo a citare poi Carico Massimo, un raggruppamento di artisti e critici che ha una parte importantissima nella genesi di Memento: qui è nata l’idea, e poi c’è stato un importante sostegno finanziario e non solo per tutta la fase di ricerca sul monumento a Ciano e per la traduzione del libro.
Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, Palazzetto Tito, con Stefano COletto
Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, Palazzetto Tito, con Stefano Coletto
L’arte tramite dialogo, partecipazione e condivisione è riuscita a mantenere il cittadino come punto di riferimento della propria prassi, facendosi da congiunzione tra memoria e comunità. Come è stata possibile questa “ riconciliazione collettiva”, come da te definita?
Da una parte c’è una sorta di meccanismo salvifico, quello innescato dall’arte come antidoto allo schiacciamento da parte del potere. Ogni narrazione compiuta dall’arte è come un cortocircuito, da qui si è sempre ripartito per la costituzione di nuovi immaginari. Ritengo quindi che l’arte sia indispensabile alla storia dell’umanità. D’altra parte, in questa fase storica, si registra anche un bisogno diffuso di ritorno alla tangibilità delle cose, il rapporto uno a uno che l’arte produce con i suoi interlocutori è possibile solo in una visione egualitaria in cui ogni osservatore è anche interprete e autore. E questa prassi mai scritta confligge con la corrente forma cosiddetta democratica della società, dove l’imperativo è quello della delega e della deresponsabilizzazione. L’arte richiede impegno un prima persona, e la cittadinanza attiva pure. Ed è bellissimo e naturale che condividano forme e percorsi.
Francesca Biagini
La ricerca per Memento è stata sviluppata nell’ambito di “Livorno in Contemporanea 2015” promossa dal Comune di Livorno, in collaborazione con il Centro Pecci di Prato all’interno del progetto regionale “Toscana Contemporanea”.
Livorno, Fortezza Nuova, con Alessandra Poggianti
Livorno, Fortezza Nuova, con Alessandra Poggianti

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