giovedì 12 marzo 2015

Imagine Architecture | Artistic Vision of the
Urban Realm

Progetto editoriale co-curato da Lukas Feireiss e Robert Klanten, pubblicato da Gestalten,
Berlino, Agosto 2014.
Copyright Gestalten 2014

“È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più
inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i
sogni sono costruite di desideri e di paure.”

Le città invisibili, Italo Calvino






Il libro Imagine Architecture racchiude nel suo insieme artisti il cui lavoro riflette sui rapporti e le
reciproche influenze tra cultura visiva e architettura. Ciascun artista con il proprio personalissimo
sguardo, partendo da un’indagine politica, una speculazione poetica o intimistica, trae ispirazione
da questa: dalle installazioni alla fotografia, alla scultura, all’illustrazione e al design.
L’architettura nelle sue capacità di adattabilità e flessibilità si è a lungo prestata come soggetto di
investigazione per le arti visive, permettendo di ampliare le nostre percezioni dell’ambiente intorno
a noi. Così come le arti visive costituiscono un’ inesauribile fonte per l’edificazione della nostra
soggettività partendo proprio dalla nostra immaginazione, così l’architettura all’interno di uno
spazio, che è culturalmente connotato e storicizzato,permette alle nostre emozioni di assumere una
topografia interiore, una psicogeografia sociale e personale. L’ immaginazione, che si fonde con le
traiettorie urbanistiche permettendo una spazializzazione del pensiero in cui le relazioni così
concepite sono alla base dello spazio stesso, è il punto di partenza di questa generazione di giovani
artisti per l’elaborazione delle proprie opere sul paesaggio urbano. Ogni progetto all’interno del
libro interpreta e riflette le proprie impostazioni spaziali, le proprie visioni espandono la definizione
stessa di architettura, promuovendo anche possibilità per spazi pubblici e città.
L’architettura viene concepita come un immaginario visivo, rappresentata attraverso lo sguardo
delle arti contemporanee, partendo dalla sua denotazione funzionale per diventare una metafora.
Immaginare l’architettura è creare un’immagine mentale di essa, come un paesaggio interiore o una
mappa intima.
Il contatto con l’ambiente e la trama dello spazio abitabile che si svincola in traiettorie geografiche
e urbanistiche, unito all’immaginazione, permette di confrontarci con molteplici possibilità.
Partendo dal concetto di “imageability”, termine introdotto dall’urbanista e architetto statunitense
Kevin Lynch, ovvero la capacità di un oggetto fisico di conferire ad un osservatore un’immagine
vivida, si capisce come l’immagine architettonica offra una grande varietà di prospettive di cui sono
esempio le opere all’interno del libro. L’immaginazione non è solo una forma di pensiero che crea
libere rappresentazioni di esperienze sensoriali, ma accresce anche la conoscenza di noi stessi e di
ciò che ci circonda in quanto frutto di un’intima relazione con la realtà.
Il libro si struttura in quattro capitoli/archetipi architettonici: The House, Exploring domestic space-
The Tower,Engaging with the vertical-The City,Imagining the urban- The Ruin, Questioning the
charm of decay.
La casa, secondo il filosofo francese Gaston Bechelard, è un’estensione della psiche, intesa come
luogo, e per questo diventa uno spazio di protezione come espressione di una topografia dell’io.
L’immagine tipologica della torre nella cultura occidentale è rappresentata dalla torre di Babele,
perfetto paradosso tra distruzione e costruzione, così come i grattacieli secondo l’architetto olandese
Rem Koolhaas offrono spazi aperti e una frontiera nel cielo. Queste considerazioni si ritrovano
nell’installazione The Island dell’artista americano Tom Sachs in cui ricostruisce una zona di
comando sul ponte di una portaerei ispirandosi alla più importante portaerei americana alimentata
ad energia nucleare, Enterprise CVN 65. The Island è completamente attrezzata con radar, armadi
con sigarette, alcolici e strumenti per la manutenzione. Concepita come un processo sempre in
possibile necessità di riparazioni insieme alla scultura viene creata anche una guida, The Island:
Guide,per aiutare nel mantenimento del sistema operativo, in quanto “c’è sempre qualcosa che
necessita la tua attenzione su The Island”. Con tono sarcastico,parodiando la società contemporanea
e la sua aggressività, l’isola-torre dell’artista lavora sull’immaginario collettivo americano
sviscerandone gli status symbol.
L’ immagine della città si evolve in un movimento costante e il nostro sistema cognitivo dello
spazio cambia con essa e così la personale percezione dei luoghi. Ognuno crea un proprio percorso
psico-geografico autobiografico all’interno del tessuto urbano; secondo lo storico Lewis Mumford
la mente prende forma nella città e, di conseguenza, la forma urbana condiziona la mente. Infine le
rovine rappresentano il futuro di ogni struttura, rivelando attraverso la propria natura transitoria, la
caducità della vita. Storicamente le scene di declino sono state romanticizzate, a partire dalla città
eterna, venendo a creare una nuova estetica volta ad apprezzare gli edifici abbandonati e i luoghi in
cui il tempo ha lasciato le proprie impronte, ispirando l’immaginazione di innumerevoli artisti. Lo
storico inglese Christopher Woodward definisce le rovine come un dialogo tra un’immagine
incompleta e l’immaginazione dello spettatore.
L’artista siciliano Adalberto Abbate nella serie Self-Portrait. Build. Destroy. Rebuild, si focalizza
sul bisogno individuale di creare, distruggere, ricostruire, in un flusso intimo ed individuale che si
identifica in modo provocatorio nel contesto architettonico. Focalizzando l’attenzione
sull’attualità,crea nuovi simbolismi legati ad eventi reali mettendo in discussione le preimpostate
norme interpretative. Con acuto sarcasmo, l’immaginario architettonico in decadenza predispone
alla riflessione sul cambiamento.
Francesca Biagini

mercoledì 4 marzo 2015

Banksy e la rigenerazione della cultura alternativa


L’ “Assange della street art”, o l’ “Anonymous dei graffiti”, 
è molto più di un mero mito commerciale. 
La street art sta sempre più ridefinendo un’area espressiva 
estranea al mercato e imprevedibile nelle forme e nei contenuti.
 Le tecnologie a basso costo e le altre discipline controculturali
(parkour, skateboard, videomaking, web) 
rendono la strada un territorio cangiante, attraente,
 a disposizione di chiunque voglia provare…
La Strada di Federico Fellini è animata da saltimbanchi 
e personaggi circensi. Ẻ un luogo simbolico fatto di maschere e
 metafore della condizione umana, di destini che si incontrano e 
di relazioni che si evolvono.  Il tessuto urbano, 
come un percorso felliniano,
 è sempre stato oggetto di visioni artistiche,
 movimenti estranei alle correnti preimposte, 
divenendo terreno fertile per ribellioni più o meno autentiche,
 per lo sviluppo di una controcultura e
 per una moltitudine di altre condizioni umane non convenzionali.
La strada è un luogo di passaggio pubblico,
 dove chiunque può lasciare il proprio segno,
 dalle semplici scritte di protesta – 
che potrebbero formare un archivio dei malesseri cittadini inespressi
 – a quelle meglio identificabili come arte o dissensi, tramite forme più propriamente artistiche.
 Determinate pratiche si confondono spesso con atti vandalici,
 sfuggendo alle facili categorizzazioni e
 non riuscendo a venir inserite nelle classificazioni d’arte tout court.
Portare queste forme di libera creatività nelle strade,
 significa renderle più accessibili,
 ristabilendo un principio democratico di fruizione
 e permettendo un dialogo all’interno dello spazio pubblico,
 in grado di favorire un’interazione stratificata.
L’arte urbana è un fenomeno che si sta iconicizzando, 
in una diffusione virale e spaziale
 che permea le strutture architettoniche, contaminandone l’aspetto.
Banksy, il famoso (anche se anonimo) writer inglese,
 ha recentemente pubblicato un video
 – girato in occasione della sua “residenza newyorkese”
 dello scorso ottobre – 
 in cui mostra la vendita di alcune sue opere a 60 dollari al pezzo 
su una bancarella in Central Park,
 rimettendo in discussione non solo le logiche del mercato dell’arte,
 ma anche  il fenomeno sociologico del brand.
L’azione, volutamente provocatoria,
 scaturisce alcune considerazioni 
attorno alla stessa natura del writing: 
esso nasce come forma d’arte sovversiva,
 riprendendo spesso formalismi pop,
 legati alla cultura di massa, 
cercando di ribaltare la prassi di output
 socio-economico dell’arte contemporanea,
 attaccando il sistema capitalista che,
 a sua volta, cerca in tutti i modi di rendere vacue
 queste manifestazioni, 
spirandone la carica eversiva e riproducendone le forme superficiali.
 Finirne fagocitati è un rischio sempre più concreto.
 Nelle sue espressioni più genuine e
 meno intaccate dalle convenzioni commerciali, 
l’arte urbana può simboleggiare la volontà di riappropriazione
 dello spazio condiviso, riqualificando il significato
 della comunità stessa in cui opera.
Blu, uno dei writer italiani più conosciuti al mondo, 
si spinge ad affermare che “Non esistono né graffiti né street art, 
esistono l’arte pubblica e le persone che la fanno”,
 conferendo maggiormente alla pratica eversiva quell’aspetto
 di socialità e di partecipazione collettiva
 che va oltre la trasgressione del gesto.
Ciò che è più rivoluzionario ed imprevedibile di questa rigenerazione
 della cultura alternativa
 è la capacità di aver rieducato le nostre abitudini visive,
 sprigionando tutto il fascino di questo potere liberatorio.
 L’eterogeneità riversata per le strade delle città apre le porte
 ad un nuovo mondo espressivo low tech o lo-fi,
 che proprio di questa caratteristica fa la sue virtù.
“Le nostre esperienze visive sono sempre più universali 
delle circostanze” direbbe John Berger,
 in quanto l’atto di guardare e la facoltà di saperlo fare 
sono strettamente connessi con il nostro vivere quotidiano 
e i nostri mutamenti storici, così come con le strade
 che percorriamo tutti i giorni.
Francesca Biagini


Da New York a Firenze: la performance-happening del collettivo Cheryl


Il collettivo artistico newyorkese crea negli spazi del CCC Strozzina di Firenze un surrealistico happening dai risvolti ironici e provocatori. 
Cheryl - © Martino Margheri
Il collettivo newyorkese Cheryl (New York, 2008), ospitato negli spazi del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Palazzo Strozzi 
a Firenze lo scorso 15 gennaio in concomitanza
 con Pitti Uomo, ha coinvolto gli spettatori 
in una performance-happening-party dall’estetica pop
capace di mettere in discussione in modo irriverente la società,
 la cultura e l’arte contemporanea.
Al contrario delle convenzionali esposizioni, 
Cheryl trasforma lo spazio e ci trascina in un viaggio,
tramite video-installazioni e performance live, entrando negli spazi sotterranei,
plasmati in una non- realtà fatta di glitter, 
paillettes, costumi, maschere, musica e coreografie.
Relazionandosi direttamente con il pubblico e facendo indossare agli spettatori una maschera felina,
 il collettivo coinvolge il pubblico nell’atmosfera festosa e ironica del contesto e, allo stesso tempo,
invita a una esplicita libertà ad agire di conseguenza.
Le stanze de-costruite e ricostruite secondo modalità interattive e intriganti, si snodano insieme a installazioni e video, tra luccichii e scintillii,
conferendo nuove chiavi di lettura a stereotipi mass mediali e cult.
Il video Tropical Hospital riprende le inserzioni pubblicitarie televisive americane proponendo
 una soluzione alternativa alle cure antidepressive con una “Permanent Vacation Solution” dove il leggendarioDottor Bouillabaisse (che cuoce a fuoco lento?)
 rimetterà in sesto la vita degli infelici con una cura a base di trapianti di cocktails, occhiali da sole,
 palloni da spiaggia e lustrini, per uscirne de-costruito ma ravvivato.
Il video White Cube – come la famosa galleria londinese –
 è una critica alle istituzioni artistiche, alle convenzioni del mondo dell’arte in cui si avverte di prepararsi all’esposizione
facendo prove allo specchio di espressioni di disappunto, non sorridendo,
 non mangiando calorie,
 piangendo ogni qualvolta sia nominato Ai Wei Wei ma mai ai funerali,
 non facendosi mai vedere fuori da New York, Londra, Parigi,
 Tokyo e Miami (qui, naturalmente, solo quando si svolge la versione decembrina di Art Basel).
Cheryl - © Martino Margheri
L’istrionico collettivo
 non solo critica con humor la società contemporanea nelle sue varie declinazioni, 
bensì reinterpreta in chiave personale miti urbani e cult movie come
 I Guerrieri della notte nel video The Cheryls,
 film icona trash di una New York
(Bronx) anni ’70 ancora non del tutto contaminata dagli splendori glamour, bensì sporca,
 in cui si dà esempio di tutta la sub cultura metropolitana di quegli anni. La desacralizzazione a cui gli spettatori partecipano 
diventa parte di una trasformazione diretta:  da osservatore dell’opera a opera stessa.
Ammiccando ai fasti del mondo della moda in apoteosi a Firenze in quei giorni, il collettivo Cheryl è subentrato nei luoghi comuni
 con un’estetica dell’assurdo e della bizzarria,
 proponendo una creatività “fai da te” attraverso una visione underground originale.
Francesca Biagini
Photo Courtesy: Martino Margheri



francesco-gnot-6






francesco-gnot-1francesco-gnot-3
francesco-gnot-5FRANCESCO GNOT / 

AESTHETIC INSTINCT

LADRI DI BICICLETTE di Francesca Biagini
Semplice vandalismo o espressione del bisogno
 di opposizione di una cittadinanza afflitta
 che rompe
il silenzio attraverso azioni ribelli? Per chi si appella
 ad un ritorno al decoro, 
chiamati da una
 “divina vocazione al bello”, anche le scritte sui muri 
o i graffiti risultano semplici atti 
di vandalismo, da rimuovere dalla memoria pubblica, 
esposti al pentimento come un’onta 
che si abbatte sulla pubblica decenza.
Ma cosa si intende per spazio pubblico?

 I cittadini come interagiscono con esso? Come si evolve?
Camminando per le strade della propria città, 

semplicemente osservando senza esprimere giudizi, 
gli scatti di Francesco Gnot testimoniano e 
documentano aspetti reconditi, nascosti,
 volutamente taciuti dai massimi esponenti, 
ma sintomatici di cambiamenti o stravolgimenti sociali.
 E’ una prassi, quella che viene documentata, 
che modifica l’aspetto dei tessuti urbani
 senza intaccarli realmente cercando di dire qualcosa 
tramite atti forti, vandalismi che diventano
 parole di necessità inespresse. Poesie liriche, 
a guardarle a distanza, come quelle che trovi sui muri
affisse dal Movimento per l’emancipazione della poesia,
 di una città che sempre più è vetrina,
specchio riflesso dei vizi e delle virtù di un paese,
 di una società intera.
In questo caso ad essere violato non è solo lo spazio pubblico, ma i beni privati che lo occupano,
 come una rimozione forzata, una volontà di dire l’indicibile,
 di non spendere più tempo in inutili discorsi,
ma agire con i mezzi più disparati.
Lo spazio pubblico si evolve e diventa archivio
 e memoria di gesti che lasciano tracce di sé,
creando una nuova estetica non programmata, 
ma efficace ed esposta,
libera di ripensare al proprio ruolo 
come luogo di espressione collettiva del diritto di proteggere
 le alterità presenti in esso.
Le marginalità si esprimono nei sistemi più eterogenei,
 uscendo da un centro sociale come percorrendo
 le vie cittadine ci si può imbattere
 in forme sociali inattese, in formalità simili ma dissimulate
 a seconda dei contesti.
 Lo spazio pubblico autogestito viene concesso a termine
dalle amministrazioni 
al fine di reinventare se stesso in nome di una sperimentazione
che segue metodologie in continuo mutamento,
 luogo di possibilità e paradossi per eccellenza.
Diversi percorsi e conformità producono ricerche comparabili,
seppur nell’ambito cittadino
 non si accettino e consentano tali conduzioni partecipate
e produzioni culturali non condizionate per mancanza spesso
di una reale conoscenza
 dell’evoluzione della nozione stessa di bellezza.
( Certe realtà possono pure diventare scomode
 e allora si sfrattano,
si distruggono non meritevoli di alcuna tutela o responsabilità,
 giunge infine la stagione degli sgomberi
 e si riportano in auge le consuete pratiche. )
C’è chi vede le istituzioni come un nemico,
 la società come qualcosa di cui non far parte,
un “comune” da cui non si sente sostenuto.
In un paesaggio cittadino dove valorizzare
 spesso vuol dire guadagnare,
 i grandi eventi sono più importanti delle singole opere e
ciò che conta non è educare a qualcosa
 ma tirare fuori i grandi numeri,
 queste “opere minimaliste”
 non sono altro che il quadro più rappresentativo 
di ciò in cui ci stiamo convertendo.
Nel centro urbano l’abbandono va di pari passo 
alla fastosità dei negozi o agli interventi scintillanti,
 freschi freschi di campagna elettorale.
 La cultura intesa come patrimonio condiviso
si è lacerata grazie ad un erroneo concetto 
di comunicazione che si basa sulla spettacolarizzazione
e sulla mediocrità.
Analizzare certi processi è l’occasione per provare ad invertire
 queste tendenze,
iniziando a porsi delle domande, 
uscendo dalla retorica per tutti i gusti,
per dare un nuovo significato al concetto di identità,
 partendo dal postulato essenziale
 per cui interrogarsi viene prima di proporre.
Il patrimonio appartiene a tutti: 
le strade, i vicoli, gli edifici, i muri,
 fanno ugualmente parte della nostra eredità.
Iniziare una ricerca sociale dettata 
da un maggiore bisogno di responsabilità, 
portare avanti una dialettica del confronto,
 concretamente legata alla realtà 
per un maggiore approfondimento dei contesti specifici, 
può creare un vero legame tra il singolo e la collettività,
 dove flussi di storie e memorie che 
raccontano comportamenti regolamentati,
 possono dare vita a una quotidianità sensibile e variegata.