domenica 14 gennaio 2018


ARON DEMETZ GALLERIA D’ARTE BARBARA PACI 
SENZA TITOLO

Forgiandosi nella tradizione artigianale della scultura lignea della Val Gardena, Aron Demetz ricrea una dimensio- ne umana icastica capace di narrare storie e di esaltare il materiale organico del legno, metafora della carne, che viene violato, cicatrizzato ed esposto. Il corpo è indagato nella sua liminalità, consapevole del margine, si muove oltre se stesso, aprendo a interrogativi sull’esistere e sul rapporto tra uomo ed esterno. Una ricerca a ritroso nella primordialità della tra- sformazione, sottile, ma che ha la forza dell’indagine profon- da e del pensiero critico.
Aron Demetz è nato a Vipiteno nel 1972. Ha partecipato a importanti mostre sia in Italia (PAC, Milano; 53. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia nel 2009) sia all’estero (Shanghai Art Museum, TFAM Taipei Fine Art Mu- seum in Taiwan). Dal 2010 insegna scultura all’Accademia di Belle arti di Carrara.
Le due sculture Senza titolo svelano la materia, ricopren- dosi di una seconda pelle lignea e frastagliata ed esponendo la propria trasfigurazione somatica. Le figure ieratiche e primarie sono manichini incerti su un piedistallo, da cui tra- spare la celebrazione della fibra viva e della fragilità dell’in- trospezione. Un dialogo emotivo e silente si instaura con chi le osserva. Raccontano lo scorrere del tempo e l’evoluzione disincantata dell’uomo contemporaneo. (FB)

Barbara Paci Galleria d’Arte nasce nel 2003 a Pietrasanta, cittadina toscana nota per le fonderie di bronzo e i laboratori di marmo che da secoli attraggono artisti di fama internazionale.
La Galleria tratta prevalentemente scultori contemporanei tra i quali Aron Demetz, Javier Marin, Kan Yasuda, Fernando Botero e Massimiliano Pelletti.
La Galleria partecipa, durante l’anno, a numerose fiere d’ar- te italiane e straniere, e promuove i propri artisti organizzando esposizioni di sculture monumentali in spazi pubblici, presso musei e istituzioni in tutto il mondo.

Forged in the tradition of the artisanal wooden sculpture of Val Gardena, Aron Demetz recreates an icastic human di- mension which tells stories and exalts the organic material of wood, a metaphor of flesh which is violated, scarred and exposed. The body is explored in its threshold condition, aware of its confines and moving beyond itself to address questions about existence and the relationship of man with the exterior world. It is a backward-moving search into the primordial nature of transformation, a subtle search which is also powerfully deep and critical.
Aron Demetz was born in Vipiteno in 1972. He has par- ticipated in important exhibitions both in Italy (PAC, Milan; 53. Esposizione Internazionale d’Arte of the Venice Biennale in 2009) and abroad (Shanghai Art Museum, TFAM Tai-
pei Fine Art Museum in Taiwan). Since 2010 he has taught sculpture at the Accademia di Belle ARti (Fine Arts Acade- my) in Carrara.

The two sculptures Senza titolo (Untitled) reveal the material by covering themselves with a second jagged wooden skin, exposing their somatic transfiguration. The hieratic, primary figures are uncertain dummies on a ped- estal, which celebrate the living fibre and the fragility of introspection. An emotional , silent dialogue is set up with the viewer. They recount the passing of time and the disen- chanted evolution of contemporary Man. (FB)
Barbara Paci Galleria d’Arte opened in 2003 in Pietrasanta, the small Tuscan town known for its bronze foundries and marble laboratories, which have been attracting internationally famous artists for centuries.
The gallery deals mainly with contemporary sculptors, including Aron Demetz, Javier Marin, Kan Yasuda, Fernando Botero and Massimiliano Pelletti.
Throughout the year it also participates in numerous Italian and foreign art fairs, promoting its artists by organising exhi- bitions of monumental sculptures in public spaces, museums and institutions all over the world. 



sabato 13 gennaio 2018

COMODO64 .Torino
8. 12. 17 – 15. 1. 18

RAGNARöK

LA CADUTA DEGLI DEI
Foto di Paolo Colaiocco
A cura di Francesca Biagini











In diretto collegamento con le foto della mostra sul backstage delle sfilate di Vivienne Westwood, questa personale del fotografo Paolo Colaiocco propone un parallelismo tra i due diversi immaginari che dialogano sia a livello metaforico, che come fonte ispirazionale e background l’uno dell’altro, con modalitá diverse, ma seguendo un percorso rizomatico. La plasticitá delle pose e le connessioni artistiche legano fra loro i due progetti, cosí come il backstage, concettualmente inteso, diventa on stage nell’arte contemporanea.
“O meglio, lo si spiega con la sua poco lodevole missione promozionale, in difesa dell’immagine dell’immagine della fotografia, ovvero del suo mito il quale deve restare assolutamente incontaminato- unico fra tutti i mezzi della comunicazione di massa- a non correre rischi che non siano, alla fine, quelli del grottesco: una fine che già si intravede.”  Ando Gilardi
La sola realtà reale è quella della superficie. Il rito e la forma. Nonostante ciò, gli dei caduti continuano a fabbricare cannoni. Le foto di Paolo Colaiocco rappresentano un’epica trash e contemporanea in cui un’umanità dissacrata e ambigua  si muove tra le righe della storia dell’ arte, la sacralità e la desacralizzazione. Nelle gerarchie ciniche che l’uomo ha redatto dei propri mezzi creativi, la fotografia spicca per la propria capacità indicale come traccia del reale. Con essa il reale diventa riproducibile nonché  documento inconfutabile.  Si mette in testa un’aura, ma poi collassa su se stessa.  
La caduta degli dei è astorica, non toglie o aggiunge nulla al sapere e non narra nient’altro che sé.  Sono fotografie/immagini/icone che  ironizzano con leggerezza e con una certa vocazione al disprezzo, senza mai banalizzare le effigi moderne e le pale d’altare del passato.
Le fotografie vanno analizzate all’interno del complesso del progetto, in cui la decadenza  dei  potenti allinea vittime e carnefici, in cui gli dei pagani si avvicinano a quelli cristiani, in cui i soggetti si travestono diventando barocco, mosaico bizantino o madonne.  Le simbologie qui presenti mettono in dubbio la tradizione e le estetiche artistiche tout court, in una sorta di metaforica gigantomachia, il cui  crepuscolo abbatte i privilegi, diventando un memento mori assoluto.



Francesca Biagini
VIVIENNE WESTWOOD OFF THE STAGE dietro le quinte delle sfilate della regina del Punk
Una mostra di Peppe Lorefice Fotografie di Paolo Colaiocco a cura di Francesca Biagini
Dal 8 dicembre 2017 al 15 gennaio 2018
Presso Comodo64, via Bologna, 92, Torino
Opening Venerdì 8 dicembre 2017 dalle ore 18.00 alle ore 23.00 Infoline: francescabiaginiart@gmail.com +39 348 4988207
La mostra VIVIENNE WESTWOOD OFF THE STAGE: dietro le quinte delle sfilate della regina del Punk ripercorre il processo e tutte le fasi che stanno dietro alla produzione di una sfilata della stilista. Non e’ semplicemente una retrospettiva del dietro le quinte, quanto piuttosto uno scandagliare il processo il cui culmine in evidenza e’ la sfilata.
La mostra sará una visione di insieme in cui le singole parti serviranno a costruire il tutto, a restituire la performace del backstage, tramite una raccolta mulimediale fatta di foto, disegni, abiti, tessuti e video.
Il punto di vista é quello inedito del non esposto del mondo della moda, senza darne un
approccio didascalico, ma mostrando un universo caotico in cui scorgere l’ aspetto reale, transitorio e non specifico della preparazione alle sfilate di Vivienne Westwood.
Dalla ricerca legata alla creazione della collezione, al casting, al fitting e allo styling, mostrando i cambi d’abito, le attese in fila, i momenti di non-produzione, il make up e l’hair-style.
In esposizione ci saranno anche video dei preprarativi e contributi con interviste dei modelli piú rappresentativi delle sfilate di Vivienne.
In tal modo si compone uno storytelling complesso, che restituisce non solo il mondo creativo che sta alle spalle della sfilata, ma che illustra una visione amplia di un progetto, un’atmosfera che é anche la restituzione di quella stessa estetica destrutturata che é la cifra stilistica della moda della regina del punk.
La mostra raccoglie materiali a partire dalle collezioni aw 12/13 Gold Label e Man fino alla ss18 Vivienne Westwood e ss18 Andreas Kronthaler per Vivienne Westwood.
Le immagini esposte seguiranno tutto lo sviluppo del backstage fino alle immagini finali
della campagna e del catalogo.
Vivienne Westwood e’ universalmente nota per aver dato forma tramite la moda ad una generazione: quella del punk inglese anni 70. Il nichilismo, l’anarchia e la trasgressione erano i punti chiave di un movimento non-movimento per definizione, a cui lei fornisce un contributo non solo visivo, ma anche concettuale e non-teorico, sempre restando nella logica punk.
La culla delle sue trasformazioni stilistiche dell’epoca era il suo oltraggioso negozio in King’s road i cui cambiamenti di nome hanno segnato i mutamenti interni e contradditto- ri del suo formalismo anticonformista. La storia del costume viene espolarata dalla stilis- ta, continuando la sua ricerca , spesso anche politica e all’insegna dell’impegno civile, in cui si uniscono le stoffe della tradizione inglese, alle estetiche vittoriane del settecento fino ai piú recenti assemblaggi genderless in cui l’arte, sia moderna che contemporanea, ha sempre avuto un fortissimo ruolo d’ ispirazione nelle sue elaborazioni.





TM-02  CASE DEL POP
Marina Arienzale-Matteo Cesari

TM Project Space #co-art in co-work
Inaugurazione: mercoledí 9 novembre, dalle ore 19,00
Via la Marmora,51-Firenze
Con il gruppo di cittadinanza attiva Qualcosa da dire
A cura di Francesca Biagini


La storia delle case del popolo é strettamente legata alla storia del territorio, in particolare quello toscano, come modello sociale partecipativo. Il circolo, nella sua definizione espansa, diventa nel tempo l’epitome vitalizzante del paese, espressione del locale come rituale di aggregazione collettiva.
Nella sfera pubblica contemporanea in cui si propagano non-luoghi e in cui la ricerca identitaria si fa sempre piú porosa, I centri di aggregazione dove si sviluppino sia forme di pensiero e ripensamento attivo che semplici attivitá ricreative, diventano peculiari posizioni che si muovono tra il desueto, il nostalgico e l’ancora necessario.
Il progetto Case del Pop  di Marina Arienzale e Matteo Cesari non si limita a mappare una realtá sociale in fieri in costante ricerca di un’identitá perduta , legata sia alla politica del pci che ai movimenti operai, ma si inserisce in un ampliamento di asse prospettica che ne coinvolge l’universalitá come fenomeno sociale.
Le immagini non sono una semplice documentazione visiva ma indagano con il rispetto della ricerca un aspetto complesso della storia italiana. Potrebbero sembrare lo stesso luogo, perché assumono la possibilitá del variabile tipica del topos nella sua originaria etimologia greca.
 Esprimendo il processo di trasformazione di queste entitá ormai storiche, che sono ancora legate al folklore cittadino e alla militanza politica  ma che devono interfacciarsi con la societá dei costumi, le case del popolo si sono trovate a mediare sincretismi fra tradizione e le nuove generazioni che ne hanno fatto centri di vita culturale e fucina di sperimentazioni.
Case del Pop si muove in questa nuova ricerca aperta agli scenari contemporanei, dando uno sguardo che non si fa sedurre dal romanticismo del decadente, ma diventa una narrazione simbolica che stimola l’osservatore a trovare e ad assumere una presa di posizione, sempre necessaria, non restando neutrale ma neanche rendendosi politico, indagando uno scenario che tocca fenomeni di gentrificazione e culto diminante del passato, e stimolando una ricerca geografica intimistica e poetica. L’associazionismo diventa metafora dei percorsi identitari dell’io che si generano nel contatto con l’altro,  nella condivisione e nelle attitudini di relazione. Sono le storie dei nostri territori che formano le microsequenze del nostro esistere.




Francesca Biagini


Teresa Margolles. Tra estasi e critica


Teresa Margolles (Culiacán, Sinaloa, Messico, 1963) modula il percorso espositivo della Tenuta Dello Scompiglio dirigendo l’osservatore verso un sentimento di stupore, come attonito, che da sublilmente estetatico, si trasforma in brutale impatto critico
Ricordando alcune interviste fatte a manifestanti femministe durante le proteste negli anni 70 : “La relazione tra i sessi è una relazione politica. Un problema personale di una donna è un problema politico.”
Nelle tre opere esposte nella mostra Sobre la Sangre curata da Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia presso lo SPE – Spazio Performatico ed Espositivo della Tenuta Dello Scompiglio, le tracce e i corpi si susseguono con una particolare  attenzione a quegli oggetti limitrofi e spettatoriali rispetto all’ “incidente”  sul corpo stesso. Il corpo diventa una topologia socializzata la cui pregnanza affonda alle radici dell’odio di genere, il cui tema é centrale in tutto il percorso espositivo. Il femminicidio e la violenza diventano simbologie più ampie di condizioni storiche che trascendono il singolo episodio in una societá androcentrica che tollera la stessa esistenza di certe pratiche del potere.
L’arte in questo senso diventa pratica e azione per trasformazioni di rilievo e appropriazioni dello spazio sociale e urbano in cui si afferma l’inuguaglianza portandone alla luce le regole dissimulatorie.  Frazada ( La Sombra) é un’istallazione che si disloca e muove nello spazio pubblico, in questo caso nella cittá di Lucca, per trovare collocazione finale all’entrata esterna della Tenuta dello Scompiglio. L’importanza del suo orbitare nel contesto pubblico é dato dal ruolo che lo spazio stesso assume nei movimenti di riappropriazione di libertá dei cittadini, ma anche dal fatto che l’installazione diventa un locus amoenus e un metaluogo. Un ombrellone che accoglie chiunque voglia trarre rifrigerio dalla sua ombra diventa, ad una piú scrupolosa osservazione, la prova dell’orrore inflitto. L’installazione itinerante consiste in una coperta sostenuta da una montatura metallica impregnata di sangue di una vittima di femminicidio. L’elemento ematico si disvela come una reliquia sacra.

Frazada (La Sombra), 2016, Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo

Qui inizia il percorso graduale che si estende fino alla sua climax nelle sale piu interne; percorso che si muove verso un senso di conoscenza che si manifesta lentamente, giungendo nelle ultime opere, quasi nascoste in fondo a bui corridoi, come una rivelazione lapalissiana.
Il labirinto semioscuro sottolinea la ritualità di un passaggio di memoria contro l’omertà; i racconti delle vittime senza nome, una volta recuperati, non devono diventare materiale obsoleto.
Il lirico realismo di Teresa Margolles e il suo impatto feroce verso tematiche a lei care e spesso legate al suo paese di provenienza emergono ancora di piú nell’opera Wila Patjharu/ Sobre la sangre che immerge lo sguardo di crudele bellezza. Una tela lunga 25 metri si disloca lungo un corridoio la cui unica illuminazione proviene dal tavolo su cui poggia, enfatizzando lo splendore dei ricami di paillettes, perline e fili iridescenti. Ciò che si osserva inizialmente è solo magnificenza. Decorazioni di figure antropomorfe, fiori, draghi e motivi astratti.

Wila Patjharu / Sobre la Sangre, 2017. Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo

L’atto di perturbare è rivelatorio. Le macchie di sangue che coprono tutta la tela si uniscono ai ricami in un tragico idillio. La narrazione muta che vi si dispiega e’ quella di dieci vittime di femminicidio a La Paz in Bolivia.  La tela e’ stata ricamata e disegnata da sette artigiane dell’etnia Aymara secondo le tecniche tradizionali degli abiti della danza boliviana.
Si stratificano due storie: una drammatica e ingiustificabile e una di possibile “redenzione”/ trasformazione dell’elemento tragico. Una speranza che si insinua nella percezione visiva dell’opera: come il folklore e la tradizione riescano a trasmutare l’orrore. L’oggetto in questione subisce un processo di appropriazione che lo trasforma da prova tangibile del delitto tramite un destorificazione universale mutandolo da prova in messaggio. Il cucito é il simbolo del femmineo piú comunemente riconosciuto; in questo caso diventa strumento di emancipazione e riconoscimento di un identità molteplice, quella delle lavoratrici e quella delle vittime.

Il Testimone, 2017 Oisiris “La Gata”, 1984-2016). Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo

La morte, tematica cara all’artista, si manifesta nelle sue sembianze più atroci ma è anche quell’entità e voce ultima che rimane alle donne uccise di cui l’artista si fa mediatrice.
Due stretti corridoi portano infine verso l’ opera site specific Il Testimone. Lungo essi si può scegliere cosa ascoltare e con quale intensità, ma non si può scegliere di sottrarsi alle storie delle due prostitute transessualiKarla e La Gata le cui foto sono mostrate in fondo in bianco e nero come figure evanescenti. Entrambe sono state uccise per il loro semplice essere. Sono storie di sofferenze, difficoltà e speranze vanificate.
Il termine femminicidio assume una nuova connotazione grazie all’antropologa Marcela Lagarde unendo in esso non solo l’atto del carnefice che uccide la vittima in quanto donna, ma ritenendo in ugual misura responsabili le istituzioni e autorità che lo hanno permesso con impunità e complicità. I processi di memoria così come il dare una storia e un nome alle vittime, permettono di rompere l’incorporazione data per naturale di certe rappresentazioni e identità sociali.  Contro la storia ufficiale si stagliano le voci e narrazioni di donne comuni che aprono un dibattito su come la forza simbolica del consenso distolga volontariamente l’attenzione dalle disposizioni del dominio. In questo asse di denuncia si collocano le opere dell’artista che funge da intermediaria tra la votazione attiva alla causa e l’ archivista di voci dimenticate.
Francesca Biagini
Firenze ,le Murate/Brac, con Daria Filardo
Abbiamo incontrato Pietro Gaglianò, studioso dei linguaggi contemporanei e curatore, in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro, Memento. L’ossessione del visibile. In questo nuovo testo, Gaglianò propone una riflessione sui monumenti, sullo spazio pubblico e le estetiche del potere, tracciando una linea di pensiero critica e efficacemente eversiva che mostra la complessità sociale che si riflette nell’opera d’arte.
Intervista a cura di Francesca Biagini
Memento è un libro senza immagini, pur affrontando il tema del visibile e la sua ossessione. Operare una scelta consapevole di questo genere è di per sé un atto non neutrale, fine a generare un  cortocircuito che stimola uno sguardo attuale sul linguaggio verbale  come “… strumento di resistenza attiva…la possibilità di un cambiamento concepito come resistenza all’abuso dell’immaginario” Mi piacerebbe iniziare da questo, partire dalla parola…
Memento, tautologicamente, nasce proprio da un lavoro sulle parole, sulle loro etimologie, sui significati nascosti che giacciono sotto il loro suono, spesso indicativi di stati di soggezione culturale del tutto interiorizzati. Il recupero di un senso critico del linguaggio è, a mio avviso, indispensabile oggi, in una fase di massificazione dell’espressione in cui la semplificazione ha il suono sinistro di un’omologazione senza uguaglianza. La parola coincide con la resistenza perché elaborare un’immagine mentale impone uno sforzo intellettuale e creativo molto più attivo di quello necessario per recepire l’immagine. Riappropriarsi della facoltà critica del linguaggio significa rifiutare che qualcuno descriva il mondo al nostro posto, le sue regole, i suoi valori. E nel vuoto metafisico di un libro senza immagini la mente diventa attiva, creativa, fa a meno del visibile o lo trasforma in esperienza morale.
Parlando del mai compiuto monumento a Costanzo Ciano a Livorno, punto di genesi del tuo libro, enunci un concetto fondamentale sulla  più ampia riflessione nel rapporto tra potere egemonico e volontà popolare. L’assunzione di responsabilità, il “Ci impegniamo, noi e non gli altri” alla Bertolt Brecht, che diventa spunto per problematizzare lo spazio pubblico e le forze che su di esso agiscono.  Qual è, secondo te,  la posizione  dell’artista rispetto a questa assunzione di responsabilità?
La bellissima frase di Brecht che ti ringrazio di aver citato è l’ispirazione per molti dei contromonumenti realizzati soprattutto in Germania nel secondo Novecento per dare vita a una memoria collettiva, ma molteplice e non uniforme, della responsabilità rispetto al nazismo. “Noi e non gli altri” è come dire “non possiamo chiedere a nessuno di ergersi contro l’ingiustizia al nostro posto”, la frase che corona il monumento (a scomparsa) contro il fascismo che Jochen e Esther Gerz hanno realizzato ad Amburgo. La posizione dell’artista forse si trova proprio qui: nel pensare, e nell’aspirazione a far pensare, in un modo autonomo. L’artista può essere un attivista, ma la forma del suo lavoro non può essere meramente dichiarativa, deve contenere oscillazioni e possibilità, senza assertività. La responsabilità dunque risiede nel mantenersi politico nel pensiero e simbolico nelle forme, forma simbolica e funzione sociale.
Carrara,Accademia di Belle Arti, con Gaia Bindi
Carrara, Accademia di Belle Arti, con Gaia Bindi
Com’ è cambiato lo spazio pubblico nella società contemporanea? E quale è, di conseguenza, il nuovo ruolo dei monumenti?
La cultura urbana contemporanea è stata espropriata dello spazio pubblico: si è verificato uno spostamento verso la comunicazione televisiva prima e web poi. Le relazioni spesso nascono e si sviluppano in un ambiente irrelato rispetto al contesto fisico, una dimensione molto funzionale alle dinamiche del capitalismo e della pressione sulle soggettività. La libera azione nello spazio pubblico, d’altro canto, subisce sempre maggiori restrizioni, nel nome della sicurezza, del decoro, di altri discorsi demagogici. In questo smembramento della cultura sociale il monumento tradizionale ha del tutto perso la sua funzione, diventando postumo rispetto a se stesso: così le opere di autori contemporanei nelle piazze non sono altro che “plop art”, decorativa, cosmetica, incapace di produrre pensiero critico e ottimo per la brandizzazione delle città che si dichiarano di riqualificarsi con il contemporaneo. A questo si oppongono molte esperienze, tese alla creazione condivisa di senso, che hanno operato e operano secondo una revisione continua dei processi, degli alfabeti formali, degli esiti che l’arte può assumere quando precipita nella sfera pubblica.
Si sono creati nel nostro paese formati artistici non convenzionali, zone di improvvisazione culturale, in cui il locale è diventato valore aggiunto rispetto al dominio pervasivo e capillare, strutturando le premesse per la rinascita di un senso di comunità. Quali sono stati gli esiti più significativi di queste nuove forme di produzione culturale?
Alcuni artisti attivi negli anni Sessanta e Settanta in Italia sono stati autenticamente pionieri, coltivando in modo spontaneo una relazione con le comunità e gli spazi che mancava in analoghe esperienze d’Europa e degli Stati Uniti. Più recentemente è esemplare l’esempio resistente di Isola Art Project a Milano, tra gli altri, ma la penisola è costellata di progetti che si basano sulla comunità pur mantenendo intatto il senso per la forma simbolica. È interessante rilevare come alcune delle realtà più dinamiche e originali siano periferiche rispetto ai centri principali di produzione contemporanea: tra le altre vorrei citare “A Cielo Aperto”, di Bianco-Valente e Pasquale Campanella, a Latronico, in Basilicata, e Guilmi Art Project, di Lucia Giardino e Chico Bacci, che prende forma da otto anni in un paese di pochissimi abitanti in Abruzzo. La comunità di Guilmi in questi mesi sta agendo per contrastare l’impianto di due centrali a biomasse, un abominio di gestione delle risorse, e forse un senso di appartenenza e di responsabilità del territorio è stato innescato anche dal confronto con gli artisti. Ci tengo a citare poi Carico Massimo, un raggruppamento di artisti e critici che ha una parte importantissima nella genesi di Memento: qui è nata l’idea, e poi c’è stato un importante sostegno finanziario e non solo per tutta la fase di ricerca sul monumento a Ciano e per la traduzione del libro.
Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, Palazzetto Tito, con Stefano COletto
Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, Palazzetto Tito, con Stefano Coletto
L’arte tramite dialogo, partecipazione e condivisione è riuscita a mantenere il cittadino come punto di riferimento della propria prassi, facendosi da congiunzione tra memoria e comunità. Come è stata possibile questa “ riconciliazione collettiva”, come da te definita?
Da una parte c’è una sorta di meccanismo salvifico, quello innescato dall’arte come antidoto allo schiacciamento da parte del potere. Ogni narrazione compiuta dall’arte è come un cortocircuito, da qui si è sempre ripartito per la costituzione di nuovi immaginari. Ritengo quindi che l’arte sia indispensabile alla storia dell’umanità. D’altra parte, in questa fase storica, si registra anche un bisogno diffuso di ritorno alla tangibilità delle cose, il rapporto uno a uno che l’arte produce con i suoi interlocutori è possibile solo in una visione egualitaria in cui ogni osservatore è anche interprete e autore. E questa prassi mai scritta confligge con la corrente forma cosiddetta democratica della società, dove l’imperativo è quello della delega e della deresponsabilizzazione. L’arte richiede impegno un prima persona, e la cittadinanza attiva pure. Ed è bellissimo e naturale che condividano forme e percorsi.
Francesca Biagini
La ricerca per Memento è stata sviluppata nell’ambito di “Livorno in Contemporanea 2015” promossa dal Comune di Livorno, in collaborazione con il Centro Pecci di Prato all’interno del progetto regionale “Toscana Contemporanea”.
Livorno, Fortezza Nuova, con Alessandra Poggianti
Livorno, Fortezza Nuova, con Alessandra Poggianti