mercoledì 29 maggio 2013


 
 “TRACKEDS” Firenze 













“Infine vorrei interrogarmi sull'idea di mobilità: una nozione estremamente complessa , in quanto  nell'ambiente urbano non tutto si muove ma al tempo stesso si muovono molte cose. Forse è proprio a questo tipo di mobilità che dobbiamo pensare, se vogliamo evitare di subirla in modo acritico”
Marco Augè



“Trackeds” è il progetto di BridA / Tom Kerševan, Jurij Pavlica, Sendi Mango che ha come protagonista indiscussa la città: i suoi movimenti dinamici, le sue strutture topografiche e la sua interazione con chi abita queste giungle architettoniche.
Un progetto costituito da più strati di informazione: un’immagine fotografica che rappresenta uno spazio architettonico senza vita e una superficie dinamica tracciata da un software di loro invenzione in grado di riconoscere la densità dei movimenti di veicoli e persone, riproponendoli iconograficamente secondo un preciso codice visivo e sonoro.
Il lavoro presentato è un site specific sulla città di Firenze che si struttura tramite una documentazione visiva dei topos cittadini la cui caratteristica principale è l'iperdinamicità degli attraversamenti.
Le entità che quotidianamente occupano questi spazi sono sublimate in un'equazione non lineare accentuando le modalità e le interazioni del movimento.
Un continuo work in progress nell'ambito del loro approccio all'indagine artistica che coopera con la scienza insito nel loro lavoro.



Il contatto con BridA inizia nel  2007 quando sono venuti a Scandicci a presentare il loro progetto “Modux” per Culture Hunting, progetto di Scandicci Cultura e Ginger Zone per promuovere la mobilità giovanile culturale.
A 5 anni dal loro intervento su Scandicci ,Brida torna in città con “Trackeds”, questa volta nel capoluogo toscano con nuove tematiche da proporre.
I nostri percorsi si sono ricongiunti a distanza di anni, uniti dal lavoro che entrambi portiamo avanti in cui il protagonista è l'ambiente urbano e le trasformazioni che in esso avvengono.

Pamela Barberi






La più importante creazione dell’uomo è la città , in quanto da esso creata a sua immagine e somiglianza  fino a diventare esso stesso “homo urbanicus”. Osservando la nostra città in un momento di rispecchiamento ontologico potremmo perciò chiederci: che tipo di persone vogliamo essere?
L’uomo non è indipendente dal suo essere determinato da altre forze quali la società, l’eredità culturale e la propria storia. E’ capace di creare rapporti complessi e trasparenti con il mondo che lo circonda. Il diritto collettivo alla città è un concetto che non sempre ritorna nella consapevolezza e nella sensibilità pubblica. Nei processi sempre più rapidi di urbanizzazione messi in moto da forze preesistenti quali globalizzazione e capitalismo,si è spesso trascurato di rivendicare una forma di potere decisionale collettivo. Le città con il loro ritmo sempre più incalzante, a ogni attraversamento della strada, a ogni input acustico stimolano le nostre percezioni sensoriali e psichiche richiedendo una maggiore quantità di coscienza rispetto ad ambienti dalle ritmicità più cadenzate.
La città di Firenze presenta peculiari caratteristiche nella sua estensione urbana e nella forte presenza di tracce che rimandano al rinascimento prima e poi alle più recenti trasformazioni urbane operate da Giuseppe Poggi al tempo di Firenze capitale d’Italia. Uno dei rischi di questa città è quello di rimanere ancorata al suo stereotipo culturale esasperandone la musealizzazione, il turismo di massa e riducendola ad una convenzionale cartolina, seppur bella, appiattita nella sua specificità materica.
Analizzare luoghi topici ma non tipici è lo scopo di questi tracciati/Trackeds, che vogliono restituirci, sottolineando i nostri movimenti, le nostre interrelazioni con il tessuto urbano, quella necessaria criticità (come un’educazione alla bellezza) indispensabile durante i processi di appropriazione del suolo.
Cercare di possedere una conoscenza più profonda dello spazio che attraversiamo, ci permette di capire quanto la città sia un luogo nel quale decifrare le relazioni sociali che vi sono iscritte, riuscendo a ritrovare se stessi nello spazio che occupiamo,come descritto da Marc Augè.
La consapevolezza dello spazio pubblico come proprio e anzi, ancor di più, come mappatura emotiva di noi stessi, di ciò che siamo, di come viviamo, di come vengono intessuti i rapporti, non può che generare con-sequenzialmente comportamenti virtuosi di rinata partecipazione e di volontà attiva. Da bambina alle scuole elementari, ricordo che il mio compagno di banco aveva l’abitudine di attaccare la gomma da masticare sotto al banco;la maestra per cercare di scuotere la sua coscienza era solita ripetergli “Attaccheresti la gomma da masticare anche sotto il tavolo di casa tua?”
 C’è la stessa diffusa tendenza, tra gli adulti, a considerare il territorio pubblico come un qualcosa di estraneo, di minor valore, rispetto a quello privato, a cui pensiamo di essere legati in modo imprescindibile e che perciò difendiamo con più caparbietà. I bambini imparano, come prima cosa, nei processi identificativi che ne segnano la crescita a distinguere io/te, mio/tuo. Nel momento in cui l’uomo si renderà conto di essere abitante della polis e non si sentirà spersonalizzato da questa definizione ma cercherà di comprenderne le conseguenze sulla propria individualità percependo il pubblico come suo, potrà agire con nuova attenzione impedendo a chiunque di depredare o saccheggiare la città come magistralmente descritto da Dino Risi nel suo lungometraggio “Le mani sulla città”.
Il lavoro dei BridA, segnalando quegli spostamenti impercettibili ma significativi che le persone sviluppano all’interno del tessuto urbano in diverse condizioni(auto, pedoni, moto, biciclette, masse e individui) e riproponendo tale mobilità secondo codici visivi e sonori legati al mondo dell’arte, permette, in modo inedito e con un maggior impatto percettivo/sensoriale di osservare dall’esterno e con una nuova e più obbiettiva presa di coscienza i nostri percorsi quotidiani che ci permettono di identificare i rispettivi rapporti sociali.


Francesca Biagini


GIANNI CARAVAGGIO | SOTTO LA SUPERFICIE, LA VERITÀ DELLA CONCRETEZZA DOVE VAI VIA DALLA LUCE MIA MENTRE ATTENDO UN MONDO NUOVO

Sotto la superficie, la verità' della concretezza, 2012/2013 Stampa a plotter su carta, marmo bardiglio nuvolato 260x160x21cm Courtesy dell’artistaLa mostra di Gianni Caravaggio (Rocca San Giovanni, 1968) è site specific per gli spazi di Base/Progetti per l’arte. Entriamo dentro uno scenario vero e proprio,in una composizione che dialoga con le superfici e con le strutture attorno. Al suo interno, diventiamo demiurghi nell’atto osservativo e nel nostro essere osservatori capaci di “creare” qualcosa partendo dall’input che le opere ci forniscono e  che, tramite la nostra capacità immaginativa, ci permettono di andare oltre,di partecipare ad un respiro universale, di prendere parte all’esperienza metafisica, poiché,come riferisce lo stesso artista,predispongono ad un senso morale e,in conseguenza a ciò, ad un mondo nuovo. Ci muoviamo in tutto il percorso in un tracciato che ci spinge per assi diagonali e si struttura attraverso dicotomie che si accostano come archetipi naturali. Le immagini evocate si lasciano iniziare dall’osservatore in tre atti demiurgici (tre opere) che diventano altrettanti atti morali.
Gianni Caravaggio | Base/Progetti per l’arte
18 aprile | 31 maggio 2013 | mar-sab 18-20
SOTTO LA SUPERFICIE, LA VERITÀ DELLA CONCRETEZZA DOVE VAI VIA DALLA LUCE MIA MENTRE ATTENDO UN MONDO NUOVO
Via dalla luce mia, 2007 Marmo statuario, marmo bardiglio imperiale, taglio d'ombra 35x25x26cm Courtesy dell’artista-Sotto la superficie la verità della concretezza- Un pezzo di marmo bardiglio nuvolato che squarcia un cielo nuvoloso e in esso si confonde,diventa parte nel tutto. Potrebbe esserci ,di fronte ad esso, un mediatore tra il mondo delle idee e la materia, che progetti il mondo partendo da un dualismo che sembra inscindibile. Solo da esso paradossalmente,secondo Platone, non si può che creare il migliore dei mondi possibili.
-Vai via dalla luce mia- Diogene disse ad Alessandro Magno:”Spostati mi fai ombra!”. Due parti di marmo di colore diverso,marmo statuario bianco e marmo bardiglio imperiale grigio,che ingannevolmente si fanno gioco delle nostre percezioni sensoriali; l’ombra obliqua che ci circuisce ci fa credere di essere l’artefice del taglio della pietra. Essa è quel grande imperatore che come unico desiderio del cinico filosofo,doveva scostarsi dal sole. Se ci avviciniamo all’ombra e al marmo la beffa si scioglie,l’arcano è svelato e siamo, come fu Diogene, non più curanti di alcun potere ma solo dediti alle regole della propria natura.
-Attendere un mondo nuovo- Per attendere un mondo nuovo si deve attendere che piova come durante un rituale propiziatorio. L’acqua, scorrendo nei tubi che perforano la finestra della galleria, creerà un cumolo, un grumo iniziatico, una piramide generativa fatto di gesso, farina e lenticchie. I tubi d’alluminio sono verniciati nei tre colori principali del ciclo del Beato Angelico per il convento di San Marco. L’artista che affrescò le celle con scene antidecorative, aveva come scopo principale appunto quello di favorire la meditazione e sviluppare un tragitto capace di muoverci dal bello naturale al bello morale.
Francesca Biagini

mercoledì 27 marzo 2013





 If I could eat an idea,I would have made my 
revolution

What should I answer to the questions " What is Art?","Is this Art in your opinion?"
Heiddeger in 1935 questioned and speculated about defining this holy Grail that art is. We can stimulate a positive emesis of our minds reading "The origin of the work of art".
We can begin from the analysis of a work of art: any other thing, with a supplement of special properties, although the definition of a thing is questionable. We then reach an overturning of the initial proposition discovering that it isn't any other thing that allows us to understand the nature of the work of art but the work of art that allows us to understand the any other thing. The work of art exposes a historical and cultural world that doesn't exhaust itself but it has a materiality that appears to us in its implementation. The work of art is the implementation of the truth. This truth can bind the common sense of time.
 A while ago i was reading "Deception" of Philip Roth. I found a sentence that made me think about Heiddeger and about art..."when a writer worthy of his name reaches 36 years of age, he doesn't translate his experience in a fairytale: he imposes his fairytales to the experiences". 




sabato 23 marzo 2013



ELENA EL ASMAR/L'ESERCIZIO DEL LONTANO

Un esercizio, quello di Elena El Asmar (Firenze 1978), che ci permette di fluttuare all’interno del nostro lontano, del ricordo, della memoria che, citando Montale, “si aggiunge all’esistente come un’aureola di nebbia al capo.”
Il progetto inedito presentato dall’artista è site-specific per gli spazi della SRISA Gallery e si struttura all’interno dell’architettura della galleria in un percorso organico sostenuto dalla formalità dei materiali utilizzati.
"L’esercizio del lontano” è un’attività del pensiero che ci permette di postulare un confronto d’idee, un’espressione dialogica in una sorta di “pedagogia” del lontano. Esso si muove nell’equilibrio/squilibrio  che oscilla tra ricordo e memoria, in cui le immagini che provengono da una dimensione passata si fanno forma (incongrua) nel presente. Il ricordo, quel consolatore molesto, si applica alla memoria che lo trasforma e lo rende hic et nunc; riconsegnandolo come tale, diventa non più qualcosa che si perde nel valore del tempo e delle nostalgie di Mnemosine, ma una cosa (ri)trovata, che l’artista presenta a noi e, reso forma, protrae nel futuro.
Elena El Asmar, L’esercizio del lontano, 2013, SRISA Gallery of Contemporary Art, courtesy of Pietro Gagliano’ (2)L’opera d’arte (che è cosa dotata di un supplemento speciale) è il feticistico oggetto da cui traiamo quel conforto di cui si necessita. Forse si richiede uno sforzo immaginativo che renda presente ciò che è assente e che riconsegni in modo organico le percezioni sfuggenti grazie cui ogni percezione passata viva in quella presente. Questo esercizio del lontano acquista il suo valore nel discostarsi da tale nostalgia per arrivare in una realtà (artista mediator) che lo rende proprio.
Il percorso si compone negli accostamenti guidati dall’allestimento, in cui si sospendono gli ordini temporali. Opere che presentano l’espansione melodica tipica dell’aria, che come nella lirica musicale ci conducono l’una all’altra, come candide sinfonie. La delicatezza dei tratti, rarefatti, ariosi costruiti in sensibili grafismi, sembra provenire da quel lontano, che si stratifica in docili passaggi dell’anima.
Ci troviamo di fronte ad opere che possono assumere valori diversi, sentimenti multiformi come tessuti leggeri, ornati preziosi che si muovono sulle variabili del tempo, in dolci rilievi impercettibili che assumono la matericità di quell’epoca assoluta che è il ricordo. Le immagini morbide sembrano fluttuare in superficie quasi come scritture cuneiformi. Nel cuore della galleria troviamo le sculture, come città sopraelevate sospese nell’etere, architetture mamelucche, fatte di materiali umili, quotidiani, multiformi, che si compongono in una panoramica sinuosa tra cui potersi muovere ed esplorarle nella loro varietà. Città che ci seguono, che ci mostrano un altro mare, situate su piattaforme composite che, alla fine del percorso espositivo, invadono lo sguardo nella loro seducente tridimensionalità, traghettandoci verso un oltre in cui sentirsi altrove.

martedì 19 marzo 2013


To be told


The knowledge as an instrument to shorten distances.
Never in this time, in an emptiness of historicization, it is important to maintain the memory of your own roots; only through their recovery there can be social evolution.
The research of consent looks with suspicion any form of freedom and creativity perceiving it as dangerous, and at times, even the memory falls into this category.
Due to the media and migrations, that connect people throughout distances, our world seems to transform itself more and more into a global village. Within this process, the adequate tools to accept and understand the diversities are not supplied. 
The stories of “To be told” narrate the identity that balances between oblivion and musealization, in a continuous tension, that testify of a gap between places and generations, showing an often common anthropologic matrix. In a Europe wide evolution of standardization, it is necessary if not a priority, to define what a minority is; in order to favor the safeguard of them and to permit their integration.
Within the many stories, the experiences of traumatic punctum that break the continuity, are recurring; events that crack the connective tissue of self seen as a waste of identity. Being part of a minority doesn’t only acquire a meaning under a collective ethnographic, social and historic point of view but it becomes an integration in the identification of the individual.
The protection of the minority’s rights is one of the most important aspect of the European Union’s program related to the defense of human rights, that implicates the awareness of the importance of identities and diversities for the creation of democratic and pluralist societies.
The stories of “To be told” have been shared orally throughout the workshop and spread globally through an online platform. They act like the oral tradition of fairytales that anciently had the purpose of knowledge’s transmission and the reaffirmation of traditional values, contributing indirectly to the perpetuation of memory, to the regulation of everyday life and to the valorization of uses.
“To be told” places itself as a creative and individual act, where the artistic expression of each participant finds the possibility to realize itself in multiple expressive forms. Too often we tend to not appreciate enough, in a sort of suspension of the critic consciousness, these stories that narrate about those cultural and ethnic minorities.


                   courtesy of Pamela Barberi, The Dance Of Zolongo

venerdì 15 marzo 2013



MA

La prima volta mi sono innamorato
dello splendore dei tuoi occhi
del tuo riso
della tua gioia di vivere

Adesso amo anche il tuo pianto
e la tua paura di vivere
e il timore di non farcela

Ma contro la paura
ti aiuterò
perché la mia gioia di vivere
è ancora lo splendore dei tuoi occhi




Erich Fried




                                  Untitled (perfect lovers) 1991-Felix Gonzalez-Torres



                                                Untitled 1991-Felix Gonzales-Torres

domenica 10 marzo 2013

    

                        KAFKA DOCET




Volti stranianti, enigmatici, spaesanti.
Il progetto fotografico di Lorenzo Acciai parte dalla selezione dei soggetti, dei volti come lastre dei sentimenti umani. Soggetti legati da parentela, la cui unione ne definisce le somiglianze.
I processi di manipolazione delle foto, nel susseguirsi, si mescolano alla prospettiva totale del progetto che si situa, allo stesso tempo, nel prima e nel dopo, nella scelta e nel morphing in cui la serie acquista un suo significato collettivo.
Nei processi di formazione dell’identità, l’identificazione si pone come prima essenziale componente; il modello in posa prende coscienza di sé come immagine non come intero che, nel Facemerge, diventa esemplificativa di una problematicità identificativa pirandelliana.
Si viene a delineare così la ricerca delle figure similari, con le quali si condividono delle comunanze ( la consanguineità , la famiglia), un’ appartenenza definibile come un noi.
Tramite un susseguirsi di processi, una sorta di metamorfosi kafkiana, si stabilisce il processo di distacco per arrivare all’individuazione che può avvenire solo dopo un assoluto distanziamento.
I facemerge sono una transizione, qualcosa di nuovo ma di indefinito, che si muove tra l’identificazione e l’individuazione.
Questi scatti, dopo una prima familiarità, creano nell’osservatore un effetto di perturbante, un punctum di disturbo, lo spaventoso del familiare ed estraneo simultaneo, un’attrazione verso l’altro disarmonico.
L’occhio fotografico ci rivela la realtà anzi, di più, la macchina fotografica diventa ciò che riesce a vedere oltre l’occhio umano.
C’e'anche un ritorno ad una fotografia nella sua essenzialità arcaica, muovendosi in uno spazio tra l’analogico e il fotoritocco, il tradizionale e il contemporaneo. L’origine e l’originialità della fotografia che riemergono.
Barthes parlando di certe fotografie osserva che sono in grado di rivelare in noi la presenza di un antenato, un qualcosa che va al di là del volto reale, un tratto genetico, un pezzo di sé stessi che ci viene da un parente, un ascendente. Il ritratto diventa rivelatore, tramite la somiglianza genetica, ci mostra l’anima vera di un uomo, un’unità più antica e sostanziale, che annega l’individualità dei soggetti ma, allo stesso tempo, la dilata in qualcosa che va al di là del tempo e dell’io.



              father/daughter#1-Facemerge- © Lorenzo Acciai


              father/daughter#2-Facemerge- © Lorenzo Acciai