martedì 22 marzo 2016


WALKING ON THE PLANET

Gli artisti che hanno abitato San Giovanni Valdarno hanno indagato lo spazio confrontandosi con il suolo pubblico e i luoghi adibiti all’esposizione e intessendo relazioni reciproche riguardo al ruolo dell’arte come fattore di dialogo tra persone e ambiente.
20 giugno –26 luglio 2015
Casa Masaccio | Casa Giovanni Mannozzi | Palazzo Panciatichi
San Giovanni Valdarno
a cura di Pietro Gaglianò
con Vincenzo Cabiati, Pierluigi Calignano, Remen Chopra, Gaetano Cunsolo, Fabio Cresci, Giovanni De Lazzari, Orietta Fineo, Vibha Galhotra, Francesco Lauretta, Concetta Modica e Sophie Usunier, P.S. Jalaja, Pantani-Surace
e con la collaborazione di  Matteo Coluccia, Simona Di Giovanni, Stefano Macaione e Daniela Pitrè
Walking on the Planet è un progetto di residenza artistica in cui nove artisti italiani ( entrati precedentemente in contatto con il terriotorio toscano tramite la collaborazione con Madeinfilanda) e tre artiste indiane hanno dialogato, creando opere site-specific, con il terriorio di San Giovanni Valdarno.
I tredici artisti, i cui lavori hanno portato a episodi di coesione e dialogo con il pubblico, hanno allestito i loro lavori negli spazi di Casa Masaccio e Casa Giovanni Mannozzi.
La Camera delle Meraviglie, allestito nello storico Palazzo Panciatichi, con le opere di diciassette artisti presenti in scorse edizioni di Madeiniflandia, affianca i progetti degli artisti in residenza, riprendendo le Wunderkammer cioè i gabinetti delle curiosità della tradizione rinascimentale e riproponendo una raccolta, uno studiolo privato, di opere dalle caratteristiche eccezionali e capaci di creare stupore ( mirabilia) indagando i confini tra naturalia e artificialia.
Gli artisti coinvolti sono Adalberto AbbateStefano ArientiBianco-ValenteFrancesco Carone,Antonio CatelaniFrancesco De GrandiMarta Dell’AngeloPaolo FabianiSerena Fineschi,Michele GuidoAmedeo MarteganiNero/Alessandro NerettiPaolo ParisiLuca PozziLuigi PresiccePedro Riz à PortaEugenia Vanni.
Camminare muta il rapporto spazio-tempo-persona, delineando fasi di cambiamento, attraversamento e arrivo e allo stesso tempo permettendo di esplorare l’ambiente circostante con una maggiore lentezza contemplativa e conoscitiva.  Nella residenza a San Giovanni Valdarno, si sono create narrazioni i cui significati mutano a seconda della personale visione dell’artista.  Per l’apertura dell’inaugurazione, l’artistaFabio Cresci ha proposto un dialogo aperto con una giovane escursionista, in cui le tematiche di viaggi, orientamento e strapiombi sono divenute metafore della pratica artistica, se non della vita stessa, intesa come continua capacità di preservare un pensiero critico ed indipendente, come continua resistenza.
La foto manifesto di Walking on the planet ricorda l’episodio del matrimonio delle volpi tratto dal film Sognidi Akira Kurosawa. Il bambino protagonista (nonostante sia stato avvertito dalla madre di non inoltrarsi nel bosco quando c’è l’arcobaleno perché i demoni volpe celebrano i loro matrimoni in queste occasioni e non vogliono essere visti), disubbidisce e intraprende il suo personale e duplice viaggio alla scoperta di quello che si rivelerà essere il cammino verso la sua crescita, l’assunzione di responsabilità, l’iniziazione all’età adulta. L’analisi del territorio circostante permette di riformulare le categorie del pensiero. Le storie iniziano quasi tutte con un viaggio che nelle sue fasi di separazione, svolgimento e arrivo/integrazione, comportano un’evoluzione altra, come esperienza meditativa in cui si ricongiunge il legame, quasi atavico, tra l’atto del camminare e l’atto di creare arte inteso anche come fondazione di nuove relazioni sociali all’interno del luogo.
Walking on the planet e’ uno degli eventi/mostre all’interno del nutrito programma del Museo Casa Masaccio.
Francesca Biagini



Arte contemporanea e Sciamanesimo


La scienza sciamanica ha influenzato ed affascinato artisti di ogni settore, da poeti come Henry Miller ad antropologi come Claude Levi Strauss fino ad artisti figurativi contemporanei.
Shaman Tableau
Shaman Tableau
In un’epoca storica di recessione, come quella contemporanea, la visione del cosmo propria dello sciamanesimo viene riportata in auge, sia dalle scienze moderne che dalle nuove interpretazioni dell’esistente. Questa inversione di tendenza è iniziata con le controculture degli anni ’60: dai viaggi verso la conoscenza di culture sconosciute, all’uso di sostanze psichedeliche, alla musica capace di trasportare a tal punto da alterare le nostre capacità percettive. Addirittura, in tempi recenti, le università statunitensi hanno ripreso a studiare le sostanze allucinogene per fini terapeutici.
Lo sciamano è una figura antica, tipica di società animiste, che rappresenta il saggio guaritore o ilprofeta messianico. La sua capacità principale è quella di riuscire a percepire le onde di energia non visibili e di viaggiare tramite stadi di trance nel mondo degli spiriti, riuscendo grazie ai suoi poteri a risolvere le problematiche della comunità di appartenenza. Gli sciamani hanno contribuito a conferire un’immagine dell’universo non più antropocentrica ma olistica, volta a vedere il mondo come un insieme organico dotato di propria sensibilità, una natura capace di comunicare tramite energie e trasmetterci informazioni. Parlando di arti figurative, Aby Warburg tracciò una relazione tra immagine e memoria sociale anche osservando rituali sciamanici della tribù degli indiani Pueblo del Nuovo Messico. Nel rituale sciamanico, il corpo assume un valore altissimo non solo come medium ma anche come elemento sociale e politico. Il corpo dello sciamano è borderline tra la sanità e la visione estatica, ma è anche elemento su cui si esplicano le sofferenze provenienti da agenti esterni in una sorta di transfert e trasmissione dei significati.
Il corpo è proprio uno degli elementi più indagati nell’arte contemporanea che si inteseca con lo sciamanesimo.
L’artista-sciamano per eccellenza è Joseph Beuys che, come un vero sciamano, aveva la sua personalissima “divisa”: indossava sempre un cappello di feltro, un gilet da pescatore e degli scarponi. Il suo corpo faceva da tramite ad un procedimento artistico in cui esso stesso assumeva funzioni salvifiche e ritualistiche. La sua “chiamata” verso lo sciamanesimo avvenne nel 1944 come descritto nella sua opera, in parte autobiografica, in parte mitica, Curriculum vitae/curriculum delle opere. Arruolato volontario nelle Luftwaffe il suo aereo fu colpito e Beuys riuscì a salvarsi scaraventato nella neve. Un gruppo di tartari nomadi della Crimea disseppellì il suo corpo e lo curò con ciò che la natura forniva loro, cioè grasso animale e feltro per ristabilire il suo calore corporeo. Questo fu il rito iniziatico di Joseph Beuys. Ilgrasso e il feltro divennero gli archetipi della sua produzione artistica. La performance I like America and America likes me è intrisa di questi elementi sciamanici. Beuys contrario alla guerra del Vietnam, arrivato in USA nel 1974 si fece recare presso la Rene Block Gallery su un’ambulanza avvolto in una coperta di feltro e si fece rinchiudere al suo arrivo in una gabbia insieme ad un coyote. Questo animale per i nativi americani rappresentava il Dio che aveva rubato il fuoco per gli uomini e che assurgeva a mediano tra mondo spirituale e mondo animale. Durante la performance Beuys si dedicava ad azioni rituali, ognuna con una diversa simbologia. Il dialogo con il coyote rappresentava perciò l’estrema rappresentazione della palingenesi di Beuys, in quanto nel corso della Storia, nel costante desiderio umano di dominio sulla natura, l’animale era giunto sul punto di estinguersi.
Photographs © Caroline Tisdall
Photographs © Caroline Tisdall
Photographs © Caroline Tisdall
Photographs © Caroline Tisdall
La star della Body Art Marina Abramovich utilizza elementi sciamanici e catartici nelle sue numerose performance, usufruendo del corpo come mezzo così come avviene nel suo celeberrimo The Abramovich Method che si pone come rituale terapeutico per il trattamento dei turbamenti contemporanei ed il raggiungimento di un’interiorità incontaminata. Tra eventi vari, l’artista si dedica sia alla creazione del suoMAI (Marina Abramovich Institute) sia all’organizzazione di viaggi nelle foreste del Brasile per incontrare tribù di sciamani (dalla cui esperienza dovrebbe essere prodotto un documentario). Nell’operaBalkan Erotic Epic, Marina Abramovich riprende il folklore dei Balcani in cui donne e uomini preservano le proprie energie attraverso l’erotismo, potente catalizzatore capace di avvicinare l’umano al divino, e in seguito mettono in atto numerose azioni esplicite con diverse finalità, come ad esempio, proteggere contro le forze del male.
still from: http://it.phaidon.com/agenda/art/picture-galleries/2010/march/22/documenting-the-performance-art-of-marina-abramovi-in-pictures/?idx=23&idx=23
still from: https://weidmanm.wordpress.com/2012/02/03/destricted-a-few-thoughts/
Il corpo come protagonista di performance rituali ed estreme si ritrova anche nei lavori dell’artista guatemalteca Regina Jose Galindo che denuncia le ingiustizie sociali dal genocidio tra gli indigeni Maya e Ixil, alle violenze della scuola Diaz durante il G8 di Genova, alle detenzioni dei Centri di Identificazione ed Espulsione. Tramite una dimensione di sofferenza e drammaticità torna su tematiche storiche appartenenti alla memoria collettiva e le denuncia in atti dal coinvolgimento persuasivo, come nella performance Raices tenutasi presso l’Orto Botanico di Palermo in cui mette in scena un rituale in cui, nuda a terra, pianta le sue braccia nel terreno fondendosi con il paesaggio per riflettere su tematiche come la razza, le origini e l’immigrazione. Insieme a lei altri corpi che ripetono il suo stesso gesto di abbracciare il paesaggio naturale, in un unico grande corpo fuso con la Terra.
Francesca Biagini

Photographs ©Giovanni Gaggia
Photographs ©Giovanni Gaggia
foto ©Giovanni Gaggia
foto ©Giovanni Gaggia



Dialogo con l’artista Marta Dell’Angelo e il curatore Pietro Gaglianò 

Marta Dell’Angelo (classe 1970) presenta per la prima volta a Firenze un progetto site-specific “A4 – 564″ per lo spazio della galleria SRISA. Abbiamo incontrato l’artista e il curatore, Pietro Gaglianò, per una conversazione a tre sul tema del corpo, della sua iconografia e della sua frammentazione.
Conversazione a tre - Marta Dell'Angelo, Pietro Gaglianò e Francesca Biagini. Photo Lorenzo Acciai
Conversazione a tre – Marta Dell’Angelo, Pietro Gaglianò e Francesca Biagini. Photo Lorenzo Acciai
Il corpo, la sua iconografia, la sua frammentazione viene dato in consegna allo spettatore, il quale, attraverso la propria visione può dar vita ad una riflessione sull’identità come legame con i processi di conoscenza culturale. L’avambraccio, scomposto e ricomposto, statuario e, non per caso, michelangelesco, viene troncato nel punto del movimento spezzandone la dinamicità ma riconsegnandolo integro all’osservatore che può così appropriarsene. Il corpo in questo modo entra in contatto con lo spazio in modo ancora più profondo, scomparendo nella terra, in un sentimento panico della natura, muovendosi tramite i micro spostamenti delle persone, alterandone la percezione e donandoci un punctum emotivo ed emozionale nel colore.
Il formato A4 riconduce l’installazione ad una dimensione quotidiana, è un formato metaforico dei nostri riti burocratici, riportando il corpo alla dimensione originaria di comunanza, di analoghe attitudini, di simili problemi riconducibili a simili soluzioni.
564 è l’anno di morte di Michelangelo la cui forza si scorge nella muscolatura, nelle variazioni e nelle posizioni di questi “pezzi” di fisicità umana.
Francesca Biagini – Come è nato l’intervento site-specific per SRISA?
Marta Dell’Angelo - Il progetto è nato quando io e Pietro Gaglianò ci siamo conosciuti a Made in Finlandia in Toscana: è stata un’occasione di dialogo e per lui di vedere il tipo di lavoro che facevo. Da lì si sono svelate delle attitudini, delle affinità. Il risultato del lavoro è stato il frutto di un confronto, ne abbiamo parlato a lungo, fino a che non abbiamo deciso, per ragioni diverse, sia legate a problemi tecnici-tempistici che di efficacia, un certo tipo di intervento. Per me era interessante esplicare questo linguaggio (già provato, ma con un’immagine, un’iconografia diversa) e quindi, da un bozzetto per un dipinto, che gli ho sottoposto, ho poi elaborato il lavoro e in seguito lo abbiamo allestito insieme, anche grazie a i ragazzi che si sono resi disponibili e senza i quali non ce l’avremmo fatta.
Pietro Gaglianò - La presenza di Marta qui alla SRISA rappresenta da un punto di vista personale un momento di grande gioia e il raggiungimento di qualcosa che desideravo da tempo, Rientra anche nell’ordine dei progetti che ho sempre proposto in questo spazio, che è uno dei pochissimi enti no profit e assolutamente indipendente di Firenze, reso possibile grazie alla generosità, totalmente disinteressata, di Rebecca Olsen. In questa galleria ho sempre invitato degli artisti che lavorassero in una dimensione pervasiva dello spazio, i quali hanno  portato qui dei progetti che avevano a che fare con una raccolta di informazioni visive e di relazioni, di rapporti tra le persone o tra le persone e le immagini, tra lo spazio fisico e lo spazio di elaborazione mentale e che fossero capaci di restituirle in queste forme di grande efficacia ma anche, per una questione di esigenze tecniche, di grande rapidità dell’azione…ho invitato Marta perché mi sembrava importante riportare al centro, rispetto alle trascorse mostre, il corpo fisico, in quanto una delle cose che mi affascina di lei è la sua costante attitudine performativa e il suo modo di essere corpo anche quando dipinge e di mettere al centro dei suoi lavori il corpo con una fortissima componente visionaria. È un corpo che viene sempre alterato, preso in giro, ridimensionato, espanso, ed è veramente un laboratorio continuo che rappresenta sia una fase mia di studio ma anche una grande occasione per il pubblico di Firenze per conoscere il lavoro di Marta che sarà tra pochi mesi a palazzo Fortuny a Venezia in occasione della Biennale di Venezia.
Marta Dell'Angelo, A4 - 564. Photo Lorenzo Acciai
Marta Dell’Angelo, A4 – 564. Photo Lorenzo Acciai
F.B – Come viene sviluppato il discorso intorno al corpo?
M.D.A – Ecco, lui ha detto una cosa, quando ha fatto l’elenco dei riferimenti al corpo, ha usato un termine apparentemente banale: ha detto il “corpo fisico”, ed è questo aspetto che per me è importantissimo. Il corpo è stato, dagli anni 70 dal punto di vista anche concettuale, sviscerato in tutte le forme, perciò tornare a ridare non solo tutti questi aspetti che esistono, ma anche una fisicità al corpo, cioè una presenza fisica, per me è un aspetto fondamentale. Nelle neuroscienze c’è un dibattito sempre aperto sulla famosa dicotomia fra mente e corpo. Quando la studi ti dicono che, dopo Spinoza, sono un tutt’uno, però nei saggi, nei pensieri e nelle riflessioni viene molto spesso messa la mente da una parte e il corpo da un’altra, per cui il mio atteggiamento è diverso. Così come attraverso l’antropologia, che attraverso l’osservazione delle modalità ti racconta la cultura e il pensiero di un mondo e di un posto, anche nelle neuroscienze io cercavo la comunione di queste due cose, in quanto, per come la vivo io, non riesco a dissociare ciò che penso da come può essere espresso attraverso il corpo. Per questo il mio lavoro non è dichiaratamente concettuale, anzi, deve passare attraverso una figurazione non solo nella pittura, che per me è puramente funzionale e non è il mio obiettivo, ma ha bisogno di passare attraverso di essa per raggiungere poi un certo tipo di forza che attraverso la fisicità esprime e racconta tutto il resto. L’informazione deve uscire dai pori e non dalla bocca.
F.B – Come definireste “la dimensione artistica e sensoriale che coincide con quella politica”?
P.G - La “dimensione politica del corpo”, secondo me, è in quello che ha detto Marta, in questo dover restituire la sensorialità e quindi, un qualcosa che non è da decodificare ma che può essere vissuta, esperita. Non è un’operazione di dissociazione intellettuale, come quella portata avanti con qualsiasi filosofia, qualsiasi espressione del pensiero e qualsiasi religione (in cui sempre il corpo è allontanato dalla mente). La storia, infatti, le ha separate sempre di più, in quanto, se non dividi la mente dal corpo non riesci nemmeno a compiere un’ingiustizia di disuguaglianza. Nel momento in cui tu metti il corpo e la mente insieme non puoi più permetterti di violare quella che è una sacralità, non presunta, ma effettiva dell’essere umano. La discriminazione viene fatta solo nel momento in cui tu separi la parte magnifica, come viene definita la mente, dalla parte volgare che è il corpo, solo allora puoi permetterti di infliggere sugli individui. Nel momento in cui queste cose vengono vissute attraverso l’esperienza, concepita come qualcosa che io tocco e il mio corpo sente di toccare, è la mia mente che sa di toccare (perciò sono “uno mentre tocco”), passo integralmente attraverso di esse. Grazie a questa separazione i discorsi egemonici sono riusciti a creare questo divario pazzesco, di cui vediamo le conseguenze estreme in questi giorni e in questi anni, in quanto concepiscono la possibilità di violare l’individuo poiché non lo riconoscono come un elemento unitario. L’importante è la causa, l’importante è lo sviluppo, il progresso quindi: c’è una sorta di idea più alta che è virtuale e che è il mondo dell’intelletto e dello spirito che va salvaguardata e quindi far morire di fame il resto dell’umanità è accettato.
M.D.A - Sul discorso dell’identità, che è un parolone spesso abusato, io non penso mai di averla persa. Sicuramente non ho mai sentito dei confini tra me e un resto del mondo che so razionalmente, perché lo studio e perché lo vivo, che è molto diverso, ma quella differenza mi devo impegnare a sentirla. Devo dire che, nella mia piccola esperienza, mi viene molto naturale inserirmi nelle situazioni perché lo faccio attraverso una modalità che è semplicemente quella corporea. Tutti gli esseri umani se tu sei dolce, gentile e aggraziato, è difficile che si allontanino anche se i loro codici sono completamente differenti. Le neuroscienze, per esempio, ritornano a parlare e a riporsi delle domande semplicissime e banalissime che secondo me tutti noi dovremmo ritornare a riprendere in mano perché interessantissime nell’evoluzione del mondo.
Marta Dell'Angelo e Pietro Gaglianò. Photo Lorenzo Acciai
Marta Dell’Angelo e Pietro Gaglianò. Photo Lorenzo Acciai
F.B – Quali specifiche derive può toccare, sia a livello artistico e di sperimentazione, sia a livello semantico, questa riflessione sul corpo e come ha influito il rapporto artista curatore?
M.d.A- Il corpo è il luogo più indagato sulla terra non solo nella storia dell’arte ma in tantissimi campi ed è ciò che ci portiamo addosso con cui dobbiamo sempre fare i conti, per cui in qualche modo si evolve e cambia nelle posture, nelle modalità, nelle relazioni, nelle emozioni a seconda anche di un evolvere del mondo.  Per tanti anni sono stata “invasata” di neuroscienze  prima delle neuroscienze ,facendo un discorso un po’ a ritroso, di filosofia ,  prima della filosofia, di psicologia secondo un percorso che fanno tanti esseri umani quando sono alla ricerca delle Verità parallelamente alla propria crescita come persona. Io mi riconosco di più in questa definizione: uno spostamento d’asse cioè quando tu sei di fronte ad una cosa sposti anche il tuo asse corporeo, quindi quello che io osservo sono micro spostamenti d’asse e ciò che io chiamo zone franche cioè quei luoghi (le aree di attesa, le stazioni, le fermate degli autobus, la metropolitana) dove le persone si spostano o si stanno spostando per andare da un posto all’altro. Quel luogo di passaggio è il luogo dove a volte le membra e il corpo non pensano a se stesse, non sono “in prestazione”, quindi è molto interessante osservarne le modalità.Sembra una specie di orchestra di articolazioni diverse. Da tutte queste osservazioni nascono dei lavori che a volte si esprimono con la pittura e molte altre volte con linguaggi differenti.
P.G - Vorrei aggiungere a proposito della prima parte della tua domanda due cose importanti: la prima è che io quando vedo il lavoro di un artista e, nel caso specifico, quando vedo il lavoro di Marta, trovo la sintesi di tutto quello che io cerco di esprimere nelle iato del discorso, nello iato dell’ argomentazione critica quindi, in alcuni casi, si salta completamente anche il ruolo della curatela e diventa un dialogo tra due forze e due capacità in cui c’è una gerarchia ma anche una vera complementarietà nell’interpretarsi a vicenda. Per quanto riguarda il corpo, io penso che nel caso di Marta, come già detto, lo studio del corpo abbia un valore fortemente politico, inteso proprio nel senso della sua radice etimologica che è sia città ma anche molti, quindi un corpo come oggetto riferibile a molti, a moltissimi. L’arte intesa come uno spazio di verifica aperto in cui il confronto con questa sfera innominata che è il pubblico riesce a compiere dei passaggi di senso, quella famosa condivisione di significato, che di solito si riferisce alla performance, ma che nel caso di un’opera che a modo suo è performante, si realizza di nuovo grazie al corpo che è politico.
M.D.A -Infatti quello che succede sempre, e che io chiamo performance private, è che durante la costruzione del lavoro si creino momenti quasi coreografici in cui diventiamo noi i soggetti di questi attimi così visivamente interessanti. Osservando questi corpi accovacciati o in piedi e le associazioni è stata una percezione comune quella di vivere dei momenti che sembravano quasi performativi. La cosa anche interessante del dialogo, quando esiste appunto un vero dialogo con il curatore, è che,ad esempio, se io per strada penso ad una cosa e in seguito scrivo a Pietro per condividerla con lui,  nel testo che lui produce non riescono  questi dialoghi in modo didascalico, ma diventano degli spunti per andare in una direzione con un pensiero rispetto ad un altro, ed emergono anche per me delle sorprese, come riuscire a spiegare certe cose che stanno su un confine.
Francesca Biagini
Photo Courtesy: Lorenzo Acciai
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Marta Dell’Angelo e Pietro Gaglianò. Photo Lorenzo Acciai
Conversazione a tre - Marta Dell'Angelo, Pietro Gaglianò e Francesca Biagini. Photo Lorenzo Acciai
Conversazione a tre – Marta Dell’Angelo, Pietro Gaglianò e Francesca Biagini. Photo Lorenzo Acciai
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Marta Dell’Angelo – Photo Lorenzo Acciai
Francesca Biagini


Loredana Longo: né Caino, né Abele


La mostra di Loredana Longo in corso alla galleria SRISA di Firenze, riflette sulla condizione del “dominato” e “dominatore” che continua a caratterizzare anche l’attuale società di massa.
nè caino nè abele,performance di Loredana Longo, delegata a Matteo Coluccia e Gianluca Trusso Forgia
nè caino nè abele,performance di Loredana Longo, delegata a Matteo Coluccia e Gianluca Trusso Forgia
Nella retorica adulterata dell’attuale democrazia c’è sempre una comunicazione coercitiva che pone le basi perchè continuino a perdurare le figure del dominatore e del dominato. Con l’avvento della società di massa nasce l’universo pubblico e la collettività, possibili fautori di un ipotetico cambiamento sociale, attuabile solo attraverso un mutamento dei rapporti di potere che costituiscono i legami alla base di ogni società (ovvero rapporti tra due attori sociali, in cui l’uno impone la propria volontà sull’altro).
vetrina-Nè caino Nè Abele,2015, installazione pallets,pelle sintetica,pelliccia di mongolia,corda
vetrina-Nè caino Nè Abele,2015, installazione pallets,pelle sintetica,pelliccia di mongolia,corda
I modi di pensare della collettività determinano i valori su cui la società è fondata e i rapporti di potere,contropoteremassificazionedominio o uguaglianza sociale. Andando al di là della superficie dei singoli accadimenti, si scopre la banalità del male come definita nell’opera di Hanna Harendt, che consiste, senza alcuna retorica, nell’eseguire senza pensiero critico la routine burocratica giornaliera, la neutra moralità senza indagare, riflettere o porre domande, da cui si genera l’uomo banale, colui cherealmente può essere il carnefice e con esso la collettività che lo genera, di cui fa parte, che non si oppone…
Ma guai a chi è diverso essendo egli comune” scrive Sandro Penna.
monsters,2015, 14 acrilici su tela-monster #6 Bokassa and me-monster #4 morphing Franco and me-monster #3 morphing Hitler and me-monster #5 morphing Mao and me
monsters,2015, 14 acrilici su tela-monster #6 Bokassa and me-monster #4 morphing Franco and me-monster #3 morphing Hitler and me-monster #5 morphing Mao and me
Le contrapposizioni tra comunitarismo e individualismo definiscono in modo multidimensionale l’ identità e la società.
La performance di Loredana Longo (1967) per la galleria SRISA è una lotta tra due individui (Matteo Coluccia e Gianluca Trusso Forgia) entrambi legati ad una corda che li tiene congiunti tramite un cappio al collo di ciascuno. Essi combattono, tirandosi con forza verso la propria direzione. Sono legati, indivisibili e imprescindibili l’uno dall’altro così come allo stesso tempo ognuno cerca di prevalere sull’altro, ma nessuno, proprio per la loro specifica condizione fisica, vi riesce, ribaltando i ruoli di vittima e carnefice. I due performers invadono gli spazi della città di Firenze, uscendo dai luoghi adibiti all’arte, trasferendo il significato nel luogo specifico in cui la vera metafora prende atto: lo spazio pubblico.
Nella mostra personale all’interno degli spazi della galleria, le opere esposte dialogano con l’osservatore, riproponendo l’estetica propagandistica del potere e spingendo l’osservatore a porsi domande su quella che può essere l’assunzione di responsabilità nei rapporti con ciò che ci circonda.
Francesca Biagini


Francesco Lauretta, A Perfect Day


“A Perfect Day” e’ il giorno perfetto  in cui Francesco Lauretta introduce le  contraddizioni dell’esistenza e della sua stessa negazione, all’interno di un percorso fatto di sguardi sul futuro e incorniciato nella perfezione di un presente solitario di fronte al mare.
Francesco Lauretta, A Perfect Day, 2015 a
La mostra di Francesco Lauretta (Ispica, Ragusa, 1964), curata da Pietro Gaglianò presso SRISA Art Gallery, presenta più di dieci opere composte da lavori a olio su tela, a spolvero su parete e tredici disegni, I disegni della morte, in olio su scotch e fusaggine su carta. L’esistenza prende forma e sostanza nella sue inesistenze, nelle sue zone d’ombra, nell’impercettibile, in quello scrutare i lievi spolveri che si diramano sulla parete come una propagazione della tela. Dalla percezione, all’inizio istintiva e interrogativa della forma sfumata e leggera, si giunge alla comprensione e alla materializzazione delle lapidi, dei tumuli di terra, della vegetazione folta, del “ció che fummo siete e ció che siamo sarete”. L’inquietudine dell’essere parte dalle luminose tele e dai bagnanti di spalle che guardano il mare, quel mare che scompone i ricordi dei momenti conclusivi dell’esistenza, come la fine di un’ estate o di una canzone.
Francesco Lauretta, A Perfect Day, 2015 - photo Daniela Pitrè2
Osservando le opere di A Perfect Day si ha come l’impressione di poter cedere alla tracotanza (anche nel suo significato antico – dal greco “Hybris”, oltraggio al divino ) di fronte al mondo esterno, di poterne restare fuori come uno spettatore incerto, per poi tuffarsi dentro e credere che tutto sará piú semplice, e di avere infinite possibilitá. Ma l’ inevitabile è giá alle porte del giorno perfetto, nell’angoscioso tentativo dell’immobile di cui la pittura ci illude.
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Francesco Lauretta ha la capacitá, assai rara, di esemplificare la vita tramite l’arte, mai in forma riduttiva, ma in ció che dell’esistente abbiamo di piú duraturo. Appena si entra nello spazio di SRISA si trova imminente sulla nostra destra l’inferno di Giovanni da Modena, sulla cui cima, come una pala d’altare, é posta una tela raffigurante una figura femminile di spalle verso un mare piatto, con poche nuvole all’orizzonte e una sabbia fatta di luce che lascia alla ricerca di un punto di appoggio in bilico tra i due sguardi, noi che di fronte erriamo nel limbo. Impossibile raggiungere l’inamovibile. La bellezza nasconde l’amaro della vita, come questi cimiteri colorati in cui il tempo ci svela il suo paradosso.
Francesca Biagini
Francesco Lauretta, A Perfect Day, 2015 - photo Daniela Pitrè6Francesco Lauretta, A Perfect Day, 2015 - photo Daniela Pitrè5



TU35-LUCCA NESSUN LUOGO E' LONTANO


NESSUN LUOGO E’ LONTANO

Il processo di indagine e ricerca sul territorio promosso da TU35 ci ha permesso di compiere una riflessione ed analizzare la geografia di un luogo riuscendo a percepirne le dinamiche relazionali e sociologiche. Da osservatori interni, ma anche parzialmente esterni, abbiamo raccolto le varie narrazioni, in questo caso legate al contesto dell’arte contemporanea, da utilizzare come parametro di questa realta’. Questo progetto ci ha condotti in uno studio attento sui nuclei generatori di creatività presenti sul territorio lucchese, di fatto entrando nel tessuto artistico-culturale della città, cercando di esaminarne le dinamiche interne ed esterne, dentro e fuori le mura.
Il territorio indagato si è svelato indice di una polarizzazione ai cui estremi si trovano gli artisti e gli operatori culturali al lato opposto , entrambi più o meno sconnessi con la realtà in cui lavorano. Riflettere sugli aspetti che hanno portato a questo scollamento e alla mancata costruzione di una consapevolezza pubblica è proprio il punto di partenza per questa nostra mostra. La città di Lucca assurge a punto nevralgico di un sistema che in modalità più o meno simili si ripete nelle altre città principali. Partendo dalle mura della città che rappresentano ancora la gloria intatta dei cittadini con le monumentali porte, ci si muove verso Pietrasanta centro della lavorazione del marmo e del bronzo con un record di gallerie d’arte, al cui interno solo pochissime promuovo il lavoro di artisti del luogo in progetti scissi dall’approccio territoriale. Adottando una logica di attenzione, partendo dai casi singoli per arrivare ad una visione  più ampia, che ci permetta di leggere nelle opere un atteggiamento costante di marginalità, si giunge ad una conclusione non definitiva ,bensì interrogativa, su quella che potrebbe essere una proiezione verso un futuro in cui modelli di trasformazione e sperimentazione artistica saranno legati ad una rete capace di promuovere e collegare artisti e collettività.
Ponendo delle domande agli artisti e agli operatori culturali del territorio  sulle sue dinamiche e fenomeni artistici, abbiamo voluto sostituire una visione univoca e coerente, che si sarebbe resa impossibile, con una delega parziale, al fine di non esprimere giudizi inconsistenti, ma creare un contenitore di opinioni di un fenomeno dalle complesse sfaccettature. Ecco allora che Nessun luogo e’ lontano (titolo di un ciclo pittorico di Cristiano Menchini), partendo dall’indagare cio’ che abbiamo di fronte,  potrebbe divenire una risposta, un potenziale punto di partenza per colmare delle distanze, passando da una condizione di assenza ad una di interrelazione.


Legati alla tradizione della pittura ad olio ma secondo visioni diverse sono I lavori di Marco Salvetti ( Pietrasanta, 1983) che rappresenta un’umanita’ quasi primitiva tramite un immaginario fantastico ed atavico e Dario Sbrana ( Lucca,1981) che invece scompone tele ad olio del primo dopoguerra ricomponendole in assemblagi geometrici inediti. Insistendo su questo medium Matteo Ciardini (Firenze, 1983) presenta una installazione composta da piccole opere pittoriche che riflettono sul concetto di assenza e silenzio, attraverso una selezione di vedute di esterni ed interni dove il tempo sembra essersi cristallizzato. Nel caos compositivo delle opere di Cristiano Menchini (Viareggio, 1986) si avverte la forza incontrollata ed incontrollabile della natura; nella grande tela Typographus l’artista intende evocare quel lento processo distruttore che l’omonimo insetto arreca alla pianta.
Con l’opera….tratta dalla serie…. Paolo Ciregia (……, 1987) mette in evidenza le atrocità vissute durante la sua permanenza in Ucraina. Sopraffatto dal bombardamento mediatico e dal parallelo disinteresse della civiltà per le atrocità degli eventi, l’artista sceglie di occultare volti e corpi nel tentativo di ridare dignità a quelle figure.
Il lavoro di Federico Fabbri (Lucca, 1991) si suddivide in diverse illustrazioni per il club lucchese seed club e fanzine indipendenti, legati ad un immaginario punk e all’estetica del fumetto, ha inoltre creato l’organizzazione BORDA!Fest-Produzioni Sotterranee a Lucca. Il fumettista Nazareno Giusti (Barga, 1989),espone alcune tavole originali della sua graphic novel su Antonio Ligabue, la cui autenticita’ di personaggio atipico e’ reinventata secondo le modalità narrative del fumetto e con uno sguardo rivolto agli aspetti più fantastici di questo artista. Il video Birth of perception gold di di Dhimitraq Kote (Korçë, 1987) porta l’astrazione in minime variazioni percettive in cui la materia si scinde dalla forma e dall’immagine. La serie Le Cirque di Mauro Moriconi ( Lucca,1980) apre una riflessione sulla natura umana tramite I suoi componenti piu’ inusuali come quelli che compongono il mondo circense, mentre Life Back di Benedetta Regoli ( Anta, 1987) fornisce  uno sguardo sul gioco  e le sue dinamiche relazionali.