venerdì 20 settembre 2013

Il limite
Starsene qui nelle stagioni che mutano
è la norma comune: il dono estremo e l'uscita.
A chi varcò la soglia non è dato tornare:
solo forse nel sogno dice parole slegate
troppo simili a queste dei nostri percorsi.
E seguitiamo a sorti, a volte sorpresi,
ogni attesa è un gioco,
ogni dubbio l'incaglio di una deriva,
e diamo numeri ai giorni,
piedi alle voglie,
confini al vagare
- sforniti di mappe, ignari del porto.

Elio Pecora

Thomas Ruff

mercoledì 4 settembre 2013

Felice chi è diverso 



Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.


Sandro Penna 


Kader Attia

lunedì 2 settembre 2013

DANH VO | FABOLOUS MUSCLES

Danh Vo, Fabulous Muscles, Museion, 2013, exhibition view, In primo piano/Vg/Front: “We the people” © Danh Vo, courtesy Galerie Chantal Crousel. Foto Othmar Seehauser
Al quarto piano del Museion di Bolzano assistiamo ad una scena apocalittica, lo smembramento di un corpo, le cui parti giacciono a terra scomposte, lucenti, frammentate. E’ il corpo di Lady Liberty, la colossale statua della libertà che illumina il mondo, regalata dal popolo francese agli stati uniti nel 1886 e progettata dai francesi Frédéric Auguste Bartholdi e Gustave Eiffel.
In rame, eseguita con la tecnica dello sbalzo, viene smontata e spedita in casse via mare, per diventare il simbolo di benvenuto e di speranza verso tutto il mondo.
Era veramente un benvenuto? O forse era il simbolo di un qualcosa che andava al di là dell’American Dream e rappresentava i cambiamenti economici in corso, la nascita del capitalismo? Era forse l’inizio della retorica dell’esportazione della democrazia?
Danh Vo (Vietnam,1975) ricostruisce la monumentale opera in scala 1:1 con la medesima tecnica dell’originale, smembrando il simbolo della libertà apre una riflessione e un dialogo su cosa essa significhi e se vi sia un giusto senso per definirla. L’artista sceglie la Statua Della Libertà, dono francese a quell’America che insieme a lei sarà coinvolta nel conflitto Vietnamita, ponendo quindi l’accento sulle contraddizioni tipiche dei paesi colonizzatori.
Di merci e frammenti si parla, di approdi continui, di pellegrinaggi umani, testimoniati dalle varie cassette di cartone, disposte nelle teche come vestige di naufraghi, scatole di Budweiser ed Evian che riportano al loro interno l’indirizzo del mittente aprendo un’ulteriore capitolo su globalizzazione e neocolonialismo.
Frammenti di un’idea, di una realtà così fragile, di una pluralità di sguardi, che sono anche quelli di chi si accinge a osservare e a interpretare ogni volta le opere dell’artista. Parafrasando una nota canzone, “libertà è partecipazione”, avvicinarsi al progetto di un artista e osservare una mostra, ci consente di dare alla propria mente la possibilità di formare nuove opinioni, di interrogarsi, di chiedersi perché. I frammenti del corpo della statua sono volutamente collocati nello splendido spazio del museo, capovolti e in un ordine non facilmente identificabile, proprio per lasciare più libero possibile colui che guarda, in modo che la ricostruzione-interpretazione, percorra un processo ogni volta personale e unico.
Danh Vo, Fabulous Muscles, Museion, 2013, exhibition view, In primo piano/Vg/Front: “We the people” © Danh Vo, courtesy Galerie Chantal Crousel. Foto Othmar Seehauser
Frammenti di un corpo, una materia senza vita, fatta di tecnologia umana, ma la cui esistenza ha grande valore. Frammenti di libertà che si librano nella contemporaneità, come i corpi degli indiani accusati di sodomia, che il capitano spagnolo Valboa fa sbranare dai cani e lo smembramento di un prigioniero in un atto di cannibalismo tra indiani brasiliani che possiamo vedere nelle incisioni di fine 500; distruzioni di altri corpi, prova dell’alienazione di altrui libertà che l’artista sceglie di inserire nel suo percorso.
Danh Vo dichiara di non voler spiegare la sua opera, lo spettatore ogni volta dovrà trovare la chiave d’accesso e interpretare ciò che vede in relazione anche al proprio vissuto; allo stesso tempo ci dà tutta una serie di indicazioni, di spunti e di letture che ci possono orientare, ma mai condizionare. Al fine di comprendere i molteplici aspetti del così complesso concetto di libertà, l’artista inserisce due excursus letterari: il primo è “Au Bonheur des Dames” 1883 di Émile Zola in cui si descrive il grande magazzino parigino Au Bon Marchèe le trasformazioni sociali che da esso derivano.
Ponendo le premesse per la nascita del moderno concetto di consumismo, si inserisce per la prima volta il concetto di democratizzazione del lusso, la nascita di un tipo di consumo che non è più necessario, ma volto a soddisfare ed estinguersi solo in se stesso, in cui pubblicità e attuali strategie di marketing, giocano un ruolo fondante. Con il consumismo, anche il nostro corpo o il modo di percepirlo cambia, si frantuma in taglie standardizzate.
Danh Vo, Fabulous Muscles, Museion, 2013, exhibition view, In primo piano/Vg/Front: “We the people” © Danh Vo, courtesy Galerie Chantal Crousel. Foto Othmar SeehauserL’altro testo è “Eupalinos ou l’Architecte” di Paul Valèry in cui assistiamo a un dialogo tra Socrate e il suo discepolo Fedro a proposito di Eupalino di Megara, celebre architetto, e i rapporti tra arte e filosofia, partendo da un aneddoto che il filosofo racconta sul ritrovamento di un oggetto ambiguo, che, nell’incapacità di riuscire a definirne la natura, decide di rigettare in mare… ”Nello stupore per la fatticità del mondo la coscienza coglie la propria libertà”.
 Nella mostra Bolzanina, l’artista ha anche inserito un insieme di elementi sacri, da un altare scomposto e come casualmente appoggiato ad una parete, a parti di un Cristo crocefisso, che si adagiano o sembrano integrati nei frammenti della grande statua. Ancora un’ulteriore scissione, quella lotta eterna tra uomo e religione, bisogno e conflitto, che accompagna l’errare umano.
Da Lady Liberty al Cristo in croce simboli di quanto complesso possa essere il nostro definirci uomini liberi.

lunedì 10 giugno 2013

IDENTITà VIRTUALI



Seppukoo era  il nome del suicidio rituale compiuto dai samurai per non doversi sottomettere a un nemico. Seppukoo è diventato anche  un sito che ha permesso il "suicidio digitale" mediante la cancellazione del proprio profilo Facebook.
 Il duo di artisti concettuali Les Liens Invisibles ( gruppo artistico immaginario) operativi dal 2007 all’interno di pratiche di  riappropriazione dei media nella pop net culture, si confronta con il ruolo dell’individuo all’interno dell’era digitale e della comunicazione online che annulla ogni forma di anonimato e di privacy nella commercializzazione dell’immagine pubblica.
 Il 5 novembre 2009 si è verificato un primo suicidio virtuale collettivo utilizzando, come testimonial ,finti profili di celebri personaggi morti suicidi. Il meccanismo si propaga come le strategie di viral marketing che connettono globalmente gli utenti ; tale disconnessione o suicidio individuale diviene un’ esperienza sociale al pari di quella distrutta.
 Assai particolare l’ assonanza che si viene a creare tra il distrutto e il distruttore, la creazione artistica così  come in variegati casi nella storia dell’arte contemporanea e non solo, ha un suo peculiare inserimento all’interno di quelle che sono le dinamiche economiche, geopolitiche del mercato multinazionale.
Libertà di espressione. Provocazione. Presa di coscienza. Utopia.
 Non è forse questo l’intento di ogni opera d’arte?
Il caso mette in evidenza la nostra costante perdita di identità , il fatto che nel bene o nel male lasciamo qualcosa di noi stessi, qualcosa di non riscattabile che si perde e diventa collettivo, mostra le dinamiche della web culture che nasce con intenti utopici di diffusione a livello estensivo del maggior numero di informazioni possibili e finisce per chiuderci in una gabbia ancora più impercettibile quanto più omologata. Facebook in quanto social network per antonomasia, è solo un facile espediente per realizzare un’ azione creativa di questo tipo.
Il duo di artisti italiani in questione sono Clemente Pestelli e Gionatan Quintini il cui lavoro artistico si basa sulla ricerca dei legami tra l’ infosfera, le sinapsi neuronali e la vita reale per capire ciò di cui è composta matericamente e iconograficamente la comunicazione. Tramite la  net-art o performing media art,interrogano ,in una congiunzione creativa tra arte e tecnologia , tutte quelle”fedi” generate dai social network in un approccio concettuale alla base del quale vi è un ampio uso di ironia.
Il loro è uno dei progetti più interessanti e innovativi d’arte e attivismo web degli ultimi tempi.
Il processo artistico  viene indagato come processo mentale così come l’attività che avviene in rete; ci si interroga sul fallimento delle utopie create dal web, la promessa di una libertà informativa, una controinformazione che fosse esule dalle matrici di coercizione del consenso a livello mediatico e mentale.
Fake is fake. Anyway.
Cosa si può opporre alla realtà totalizzante del mainstream?
Se non si può ripristinare una verità o realtà –la verità non mi sembra mai vera- (presunzione di verità)si può però inserire una molteplicità di opinioni e voci sugli argomenti, ed è questo ciò su cui opera la net-art.
Lev Manovich definisce la net-arte appunto” la materializzazione dei social networks sulla comunicazione su internet”.
 La net art nella cultura digitale si prefissa perciò di utilizzare le tecnologie di rete per sovvertire le strategie di mercato, i meccanismi di comunicazione, le pratiche consumistiche e i paradossi della politica, le cattedrali dell’arte e quelle dell’entertainment.
Il web ha cambiato le nostre modalità di ricezione e interazione con una nuova realtà virtuale trasformando l’utente da semplice fruitore a realizzatore di contenuti. Ciò sta alla base anche della net-art: open source e fruibilità globale.
Gli intenti di questa forma d’arte sono anche quelli di riportare in auge un’individualità e soggettività che va perdendosi cercando di svelare i collegamenti che permettono la creazione delle icone dell’immaginario collettivo; citando les liens invisible  che, riferendosi a Magritte, trovano in esso la chiave di lettura del loro progetto “affermare che un oggetto è una pipa ci può far sentire umani, ma affermare che non lo è ci rende liberi”.
Si  è parlato anche di una perdita di spinta creativa che riguarderebbe tutta la net-art o  all’ arte in generale legata ai nuovi media.
A dispetto delle funeree predizioni essa rimane una disciplina d’avanguardia estremamente legata alla controcultura, all’attivismo creativo e alla comunicazione.
Si tratta perciò di utilizzare le tecnologie di rete per sovvertire le strategie di mercato senza cadere nel rischio di perpetuarne le logiche costruttive.
Muovendosi all’interno dell’immaginario di massa viene da chiederci se sia quindi l’attivismo l’unica strada della net-art per proporre nuove modalità creative e idee sovversive, dal momento che la promessa che un mondo virtuale trasformasse quello reale si è solo parzialmente avverata, facendo cortocircuitare la logica per cui, anche la net art, non si è trasformata in Arte con la A maiuscola.
 Alcuni artisti hanno cominciato ad utilizzare le potenzialità del web che permettevano alle informazioni di fruire liberamente,capaci di produrre azioni in tempo reale, destabilizzando così i sistemi che appartengono ai centri d’alimentazione della politica e dell’economia ,muovendosi su le tematiche più diverse,dalle lacune sociali, ai sistemi di massa  e perfino alle catastrofi ecologiche, divenendo così da semplici artisti a” uomini d’azione”.
Delle nuove strategie di net-art non possono che beneficiarne i propri fruitori ponendo l’attenzione su nuove problematiche ,aprendo gli occhi ad un pubblico di massa e aumentando le consapevolezze sui poteri individuali.
“This is NOT the end, my only friend.”
















martedì 4 giugno 2013

VINCENZO LATRONICO / ARMIN LINKE | NARCISO NELLE COLONIE – UN ALTRO VIGGIO IN ETIOPIA

AUTHOR // Redazione
POSTED IN // FOTOGRAFIALETTERATURANEWS
Narciso nelle colonie - Un altro viggio in EtiopiaL’ultimo appuntamento di -Scripta l’arte a parole.- Ciclo di presentazioni con autori e curatori di edizioni sulla critica d’arte contemporanea a cura di Pietro Gaglianò presso la libreria Brac ha ospitato la presentazione di “Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia” di Vincenzo Latronico e Armine Linke. Un libro particolare rispetto a quelli che lo hanno preceduto nella rassegna durante il corso dell’anno, ma che ci permette di viaggiare tramite le immagini di Armine Linke e la  narrazione di Vincenzo Latronico.
Un diario di viaggio sull’Etiopia, ma anche un viaggio nel tempo, un racconto antropologico, una storia sulle origini familiari, una ricerca etnografica, un reportage fotografico, un testo storico sul passato coloniale italiano. Tutto questo e niente di tutto ciò.
Credo che chiunque si accinga a scrivere di un luogo ad esso sconosciuto o, più semplicemente si appresti ad affrontare un viaggio, nasconda dentro di sé, insieme all’eccitazione della scoperta, la paura dell’ignoto, come la difficoltà a trovare un equilibrio su ciò che ci hanno raccontato di quel luogo, che crediamo di sapere, che abbiamo letto e ciò che sarà la nostra esperienza effettiva nonché emotiva dello stesso. Oltre a queste paure se ne sommano molte altre, come quelle che l’autore, in un doppio inizio o falsa partenza, ci svela.
Essenzialmente viaggiare vuol dire osservare.
Il gesto di guardare non è mai neutro, puro, intatto è sempre contaminato da ciò che siamo, dai nostri metri di giudizio, da schemi mentali, dalla nostra cultura occidentale, evocando la paura di non trasmettere nulla di nuovo se non una cronaca di clichè, esotismi e leziosi tramonti, di cadere nello sguardo del neocolonialismo culturale e di fornire un’immagine statica. Tutti timori sensati.
Leggendo mi soffermo su questa affermazione: ”Il tutto, nonostante la drammaticità un po’ forzata, rispetta il carattere essenziale del racconto di viaggio, il suo essere portatore sano di panorami”.
È proprio con in spalla queste paure, che si inizia un viaggio nel suo senso più autentico.
Narciso nelle colonie - Un altro viggio in Etiopia2Questo è il primo volume della collana Quodlib et Humboldt. I due viaggiatori iniziano un percorso da Gibuti a Addis Abeba che in tre settimane, pattuendo una collaborazione al minimo possibile, li porterà a ripercorrere il tragitto dell’antica ferrovia che un antenato di Latronico aveva contribuito a costruire. Entrambi cercano qualcosa: uno le origini della propria famiglia, l’altro l’architettura internazionale portata in Etiopia dai coloni.
L’Italia ha cercato di rimuovere storicamente il proprio passato coloniale dell’impero fascista. Dal testo si evincono molte informazioni sulle tracce lasciate da un tale pesante passato, nonché i risvolti della modernizzazione, “dell’ansia da globalizzazione” e l’idea di progresso che ne è conseguita. L’ultimo capitolo, ”Un’appendice. Ethiopia Hoy!” ci narra la trama del romanzo ritrovato dalla nonna di Latronico permettendoci di fantasticare e allo stesso tempo di conoscere un’altra storia ancora, un racconto nel racconto, in una summa di dati storici e personali che rendono questo particolare “diario” di viaggio così speciale.
Dalla letteratura periegetica, ai racconti dei navigatori in terre lontane, ai grand tour ottocenteschi il racconto di viaggio ha sempre affascinato il grande pubblico. Alle origini del grande successo della fotografia, vi fu la sua capacità di raccontare i paesaggi, di descriverli e perciò, in un’epoca in cui i mezzi di trasporto non permettevano spostamenti veloci, nè di massa, di far viaggiare gli osservatori restando comodamente seduti sul proprio divano affiancandosi in modo didascalico ai racconti di viaggio, sconvolgendo il mondo occidentale con le prime immagini di terre inaudite come l’India, la Crimea o la Cina, alimentando l’esotismo, così tanto amato dai romantici dell’800, in cui i paesi lontani diventavano secondo un’ottica meramente occidentale, evocativi di una vita intensa e voluttuosa.
Che senso può avere raccontare o descrivere un viaggio in un’epoca e in un mondo saturo di immagini, informazioni, guide turistiche, in cui i rapidi mezzi di trasporto permettono di arrivare dall’Italia all’Africa in poche ore?
E’ necessario trovare una nuova via di fare viaggi e di narrarli.
“Narciso nelle colonie” ci fornisce un ibrido di storie, informazioni pratiche per il viaggiatore, esperienze soggettive, aneddoti affascinanti, nonché insieme alle trentuno foto a colori di Armin Linke, un profilo di Hailé Selassié e un interessante dizionarietto delle parole italiane rimaste nella lingua amarica.
“Ingannandoci” e affascinandoci ci coinvolge nella storia e ci permette di viaggiare e visualizzare la Sua Etiopia, in cui l’esperienza propria e il modo di guardarla diventano l’unica maniera utile e capace di trasmettere qualcosa e conferire un rinato senso alla letteratura di viaggio, in una riflessione consapevole di ciò che si sta cercando, dei dubbi che ne puntellano il percorso e di cosa non si è trovato, ma forse non era neanche così importante trovare.
Il viaggiatore/scrittore come Narciso che cerca se stesso e la sua identità nel proprio riflesso, e nella storia della propria famiglia, credendo di sapere già cosa vedrà nello specchio e che invece ne resta esso stesso colpito, ci trasmette tutto l’incanto di un amore impossibile e ci emoziona come di fronte ad un tramonto nel deserto.
Francesca Biagini

mercoledì 29 maggio 2013


 
 “TRACKEDS” Firenze 













“Infine vorrei interrogarmi sull'idea di mobilità: una nozione estremamente complessa , in quanto  nell'ambiente urbano non tutto si muove ma al tempo stesso si muovono molte cose. Forse è proprio a questo tipo di mobilità che dobbiamo pensare, se vogliamo evitare di subirla in modo acritico”
Marco Augè



“Trackeds” è il progetto di BridA / Tom Kerševan, Jurij Pavlica, Sendi Mango che ha come protagonista indiscussa la città: i suoi movimenti dinamici, le sue strutture topografiche e la sua interazione con chi abita queste giungle architettoniche.
Un progetto costituito da più strati di informazione: un’immagine fotografica che rappresenta uno spazio architettonico senza vita e una superficie dinamica tracciata da un software di loro invenzione in grado di riconoscere la densità dei movimenti di veicoli e persone, riproponendoli iconograficamente secondo un preciso codice visivo e sonoro.
Il lavoro presentato è un site specific sulla città di Firenze che si struttura tramite una documentazione visiva dei topos cittadini la cui caratteristica principale è l'iperdinamicità degli attraversamenti.
Le entità che quotidianamente occupano questi spazi sono sublimate in un'equazione non lineare accentuando le modalità e le interazioni del movimento.
Un continuo work in progress nell'ambito del loro approccio all'indagine artistica che coopera con la scienza insito nel loro lavoro.



Il contatto con BridA inizia nel  2007 quando sono venuti a Scandicci a presentare il loro progetto “Modux” per Culture Hunting, progetto di Scandicci Cultura e Ginger Zone per promuovere la mobilità giovanile culturale.
A 5 anni dal loro intervento su Scandicci ,Brida torna in città con “Trackeds”, questa volta nel capoluogo toscano con nuove tematiche da proporre.
I nostri percorsi si sono ricongiunti a distanza di anni, uniti dal lavoro che entrambi portiamo avanti in cui il protagonista è l'ambiente urbano e le trasformazioni che in esso avvengono.

Pamela Barberi






La più importante creazione dell’uomo è la città , in quanto da esso creata a sua immagine e somiglianza  fino a diventare esso stesso “homo urbanicus”. Osservando la nostra città in un momento di rispecchiamento ontologico potremmo perciò chiederci: che tipo di persone vogliamo essere?
L’uomo non è indipendente dal suo essere determinato da altre forze quali la società, l’eredità culturale e la propria storia. E’ capace di creare rapporti complessi e trasparenti con il mondo che lo circonda. Il diritto collettivo alla città è un concetto che non sempre ritorna nella consapevolezza e nella sensibilità pubblica. Nei processi sempre più rapidi di urbanizzazione messi in moto da forze preesistenti quali globalizzazione e capitalismo,si è spesso trascurato di rivendicare una forma di potere decisionale collettivo. Le città con il loro ritmo sempre più incalzante, a ogni attraversamento della strada, a ogni input acustico stimolano le nostre percezioni sensoriali e psichiche richiedendo una maggiore quantità di coscienza rispetto ad ambienti dalle ritmicità più cadenzate.
La città di Firenze presenta peculiari caratteristiche nella sua estensione urbana e nella forte presenza di tracce che rimandano al rinascimento prima e poi alle più recenti trasformazioni urbane operate da Giuseppe Poggi al tempo di Firenze capitale d’Italia. Uno dei rischi di questa città è quello di rimanere ancorata al suo stereotipo culturale esasperandone la musealizzazione, il turismo di massa e riducendola ad una convenzionale cartolina, seppur bella, appiattita nella sua specificità materica.
Analizzare luoghi topici ma non tipici è lo scopo di questi tracciati/Trackeds, che vogliono restituirci, sottolineando i nostri movimenti, le nostre interrelazioni con il tessuto urbano, quella necessaria criticità (come un’educazione alla bellezza) indispensabile durante i processi di appropriazione del suolo.
Cercare di possedere una conoscenza più profonda dello spazio che attraversiamo, ci permette di capire quanto la città sia un luogo nel quale decifrare le relazioni sociali che vi sono iscritte, riuscendo a ritrovare se stessi nello spazio che occupiamo,come descritto da Marc Augè.
La consapevolezza dello spazio pubblico come proprio e anzi, ancor di più, come mappatura emotiva di noi stessi, di ciò che siamo, di come viviamo, di come vengono intessuti i rapporti, non può che generare con-sequenzialmente comportamenti virtuosi di rinata partecipazione e di volontà attiva. Da bambina alle scuole elementari, ricordo che il mio compagno di banco aveva l’abitudine di attaccare la gomma da masticare sotto al banco;la maestra per cercare di scuotere la sua coscienza era solita ripetergli “Attaccheresti la gomma da masticare anche sotto il tavolo di casa tua?”
 C’è la stessa diffusa tendenza, tra gli adulti, a considerare il territorio pubblico come un qualcosa di estraneo, di minor valore, rispetto a quello privato, a cui pensiamo di essere legati in modo imprescindibile e che perciò difendiamo con più caparbietà. I bambini imparano, come prima cosa, nei processi identificativi che ne segnano la crescita a distinguere io/te, mio/tuo. Nel momento in cui l’uomo si renderà conto di essere abitante della polis e non si sentirà spersonalizzato da questa definizione ma cercherà di comprenderne le conseguenze sulla propria individualità percependo il pubblico come suo, potrà agire con nuova attenzione impedendo a chiunque di depredare o saccheggiare la città come magistralmente descritto da Dino Risi nel suo lungometraggio “Le mani sulla città”.
Il lavoro dei BridA, segnalando quegli spostamenti impercettibili ma significativi che le persone sviluppano all’interno del tessuto urbano in diverse condizioni(auto, pedoni, moto, biciclette, masse e individui) e riproponendo tale mobilità secondo codici visivi e sonori legati al mondo dell’arte, permette, in modo inedito e con un maggior impatto percettivo/sensoriale di osservare dall’esterno e con una nuova e più obbiettiva presa di coscienza i nostri percorsi quotidiani che ci permettono di identificare i rispettivi rapporti sociali.


Francesca Biagini


GIANNI CARAVAGGIO | SOTTO LA SUPERFICIE, LA VERITÀ DELLA CONCRETEZZA DOVE VAI VIA DALLA LUCE MIA MENTRE ATTENDO UN MONDO NUOVO

Sotto la superficie, la verità' della concretezza, 2012/2013 Stampa a plotter su carta, marmo bardiglio nuvolato 260x160x21cm Courtesy dell’artistaLa mostra di Gianni Caravaggio (Rocca San Giovanni, 1968) è site specific per gli spazi di Base/Progetti per l’arte. Entriamo dentro uno scenario vero e proprio,in una composizione che dialoga con le superfici e con le strutture attorno. Al suo interno, diventiamo demiurghi nell’atto osservativo e nel nostro essere osservatori capaci di “creare” qualcosa partendo dall’input che le opere ci forniscono e  che, tramite la nostra capacità immaginativa, ci permettono di andare oltre,di partecipare ad un respiro universale, di prendere parte all’esperienza metafisica, poiché,come riferisce lo stesso artista,predispongono ad un senso morale e,in conseguenza a ciò, ad un mondo nuovo. Ci muoviamo in tutto il percorso in un tracciato che ci spinge per assi diagonali e si struttura attraverso dicotomie che si accostano come archetipi naturali. Le immagini evocate si lasciano iniziare dall’osservatore in tre atti demiurgici (tre opere) che diventano altrettanti atti morali.
Gianni Caravaggio | Base/Progetti per l’arte
18 aprile | 31 maggio 2013 | mar-sab 18-20
SOTTO LA SUPERFICIE, LA VERITÀ DELLA CONCRETEZZA DOVE VAI VIA DALLA LUCE MIA MENTRE ATTENDO UN MONDO NUOVO
Via dalla luce mia, 2007 Marmo statuario, marmo bardiglio imperiale, taglio d'ombra 35x25x26cm Courtesy dell’artista-Sotto la superficie la verità della concretezza- Un pezzo di marmo bardiglio nuvolato che squarcia un cielo nuvoloso e in esso si confonde,diventa parte nel tutto. Potrebbe esserci ,di fronte ad esso, un mediatore tra il mondo delle idee e la materia, che progetti il mondo partendo da un dualismo che sembra inscindibile. Solo da esso paradossalmente,secondo Platone, non si può che creare il migliore dei mondi possibili.
-Vai via dalla luce mia- Diogene disse ad Alessandro Magno:”Spostati mi fai ombra!”. Due parti di marmo di colore diverso,marmo statuario bianco e marmo bardiglio imperiale grigio,che ingannevolmente si fanno gioco delle nostre percezioni sensoriali; l’ombra obliqua che ci circuisce ci fa credere di essere l’artefice del taglio della pietra. Essa è quel grande imperatore che come unico desiderio del cinico filosofo,doveva scostarsi dal sole. Se ci avviciniamo all’ombra e al marmo la beffa si scioglie,l’arcano è svelato e siamo, come fu Diogene, non più curanti di alcun potere ma solo dediti alle regole della propria natura.
-Attendere un mondo nuovo- Per attendere un mondo nuovo si deve attendere che piova come durante un rituale propiziatorio. L’acqua, scorrendo nei tubi che perforano la finestra della galleria, creerà un cumolo, un grumo iniziatico, una piramide generativa fatto di gesso, farina e lenticchie. I tubi d’alluminio sono verniciati nei tre colori principali del ciclo del Beato Angelico per il convento di San Marco. L’artista che affrescò le celle con scene antidecorative, aveva come scopo principale appunto quello di favorire la meditazione e sviluppare un tragitto capace di muoverci dal bello naturale al bello morale.
Francesca Biagini