FRANCESCO GNOT /
AESTHETIC INSTINCT
LADRI DI BICICLETTE di Francesca Biagini
Semplice vandalismo o espressione del bisogno
di opposizione di una cittadinanza afflitta
che rompe
il silenzio attraverso azioni ribelli? Per chi si appella
ad un ritorno al decoro,
chiamati da una
“divina vocazione al bello”, anche le scritte sui muri
o i graffiti risultano semplici atti
di vandalismo, da rimuovere dalla memoria pubblica,
esposti al pentimento come un’onta
che si abbatte sulla pubblica decenza.
Ma cosa si intende per spazio pubblico?
I cittadini come interagiscono con esso? Come si evolve?
Camminando per le strade della propria città,
semplicemente osservando senza esprimere giudizi,
gli scatti di Francesco Gnot testimoniano e
documentano aspetti reconditi, nascosti,
volutamente taciuti dai massimi esponenti,
ma sintomatici di cambiamenti o stravolgimenti sociali.
E’ una prassi, quella che viene documentata,
che modifica l’aspetto dei tessuti urbani
senza intaccarli realmente cercando di dire qualcosa
tramite atti forti, vandalismi che diventano
parole di necessità inespresse. Poesie liriche,
a guardarle a distanza, come quelle che trovi sui muri
affisse dal Movimento per l’emancipazione della poesia,
di una città che sempre più è vetrina,
specchio riflesso dei vizi e delle virtù di un paese,
di una società intera.
In questo caso ad essere violato non è solo lo spazio pubblico, ma i beni privati che lo occupano,
come una rimozione forzata, una volontà di dire l’indicibile,
di non spendere più tempo in inutili discorsi,
ma agire con i mezzi più disparati.
Lo spazio pubblico si evolve e diventa archivio
e memoria di gesti che lasciano tracce di sé,
creando una nuova estetica non programmata,
ma efficace ed esposta,
libera di ripensare al proprio ruolo
come luogo di espressione collettiva del diritto di proteggere
le alterità presenti in esso.
Le marginalità si esprimono nei sistemi più eterogenei,
uscendo da un centro sociale come percorrendo
le vie cittadine ci si può imbattere
in forme sociali inattese, in formalità simili ma dissimulate
a seconda dei contesti.
Lo spazio pubblico autogestito viene concesso a termine
dalle amministrazioni
al fine di reinventare se stesso in nome di una sperimentazione
che segue metodologie in continuo mutamento,
luogo di possibilità e paradossi per eccellenza.
Diversi percorsi e conformità producono ricerche comparabili,
seppur nell’ambito cittadino
non si accettino e consentano tali conduzioni partecipate
e produzioni culturali non condizionate per mancanza spesso
di una reale conoscenza
dell’evoluzione della nozione stessa di bellezza.
( Certe realtà possono pure diventare scomode
e allora si sfrattano,
si distruggono non meritevoli di alcuna tutela o responsabilità,
giunge infine la stagione degli sgomberi
e si riportano in auge le consuete pratiche. )
C’è chi vede le istituzioni come un nemico,
la società come qualcosa di cui non far parte,
un “comune” da cui non si sente sostenuto.
In un paesaggio cittadino dove valorizzare
spesso vuol dire guadagnare,
i grandi eventi sono più importanti delle singole opere e
ciò che conta non è educare a qualcosa
ma tirare fuori i grandi numeri,
queste “opere minimaliste”
non sono altro che il quadro più rappresentativo
di ciò in cui ci stiamo convertendo.
Nel centro urbano l’abbandono va di pari passo
alla fastosità dei negozi o agli interventi scintillanti,
freschi freschi di campagna elettorale.
La cultura intesa come patrimonio condiviso
si è lacerata grazie ad un erroneo concetto
di comunicazione che si basa sulla spettacolarizzazione
e sulla mediocrità.
Analizzare certi processi è l’occasione per provare ad invertire
queste tendenze,
iniziando a porsi delle domande,
uscendo dalla retorica per tutti i gusti,
per dare un nuovo significato al concetto di identità,
partendo dal postulato essenziale
per cui interrogarsi viene prima di proporre.
Il patrimonio appartiene a tutti:
le strade, i vicoli, gli edifici, i muri,
fanno ugualmente parte della nostra eredità.
di opposizione di una cittadinanza afflitta
che rompe
il silenzio attraverso azioni ribelli? Per chi si appella
ad un ritorno al decoro,
chiamati da una
“divina vocazione al bello”, anche le scritte sui muri
o i graffiti risultano semplici atti
di vandalismo, da rimuovere dalla memoria pubblica,
esposti al pentimento come un’onta
che si abbatte sulla pubblica decenza.
Ma cosa si intende per spazio pubblico?
I cittadini come interagiscono con esso? Come si evolve?
Camminando per le strade della propria città,
semplicemente osservando senza esprimere giudizi,
gli scatti di Francesco Gnot testimoniano e
documentano aspetti reconditi, nascosti,
volutamente taciuti dai massimi esponenti,
ma sintomatici di cambiamenti o stravolgimenti sociali.
E’ una prassi, quella che viene documentata,
che modifica l’aspetto dei tessuti urbani
senza intaccarli realmente cercando di dire qualcosa
tramite atti forti, vandalismi che diventano
parole di necessità inespresse. Poesie liriche,
a guardarle a distanza, come quelle che trovi sui muri
affisse dal Movimento per l’emancipazione della poesia,
di una città che sempre più è vetrina,
specchio riflesso dei vizi e delle virtù di un paese,
di una società intera.
In questo caso ad essere violato non è solo lo spazio pubblico, ma i beni privati che lo occupano,
come una rimozione forzata, una volontà di dire l’indicibile,
di non spendere più tempo in inutili discorsi,
ma agire con i mezzi più disparati.
Lo spazio pubblico si evolve e diventa archivio
e memoria di gesti che lasciano tracce di sé,
creando una nuova estetica non programmata,
ma efficace ed esposta,
libera di ripensare al proprio ruolo
come luogo di espressione collettiva del diritto di proteggere
le alterità presenti in esso.
Le marginalità si esprimono nei sistemi più eterogenei,
uscendo da un centro sociale come percorrendo
le vie cittadine ci si può imbattere
in forme sociali inattese, in formalità simili ma dissimulate
a seconda dei contesti.
Lo spazio pubblico autogestito viene concesso a termine
dalle amministrazioni
al fine di reinventare se stesso in nome di una sperimentazione
che segue metodologie in continuo mutamento,
luogo di possibilità e paradossi per eccellenza.
Diversi percorsi e conformità producono ricerche comparabili,
seppur nell’ambito cittadino
non si accettino e consentano tali conduzioni partecipate
e produzioni culturali non condizionate per mancanza spesso
di una reale conoscenza
dell’evoluzione della nozione stessa di bellezza.
( Certe realtà possono pure diventare scomode
e allora si sfrattano,
si distruggono non meritevoli di alcuna tutela o responsabilità,
giunge infine la stagione degli sgomberi
e si riportano in auge le consuete pratiche. )
C’è chi vede le istituzioni come un nemico,
la società come qualcosa di cui non far parte,
un “comune” da cui non si sente sostenuto.
In un paesaggio cittadino dove valorizzare
spesso vuol dire guadagnare,
i grandi eventi sono più importanti delle singole opere e
ciò che conta non è educare a qualcosa
ma tirare fuori i grandi numeri,
queste “opere minimaliste”
non sono altro che il quadro più rappresentativo
di ciò in cui ci stiamo convertendo.
Nel centro urbano l’abbandono va di pari passo
alla fastosità dei negozi o agli interventi scintillanti,
freschi freschi di campagna elettorale.
La cultura intesa come patrimonio condiviso
si è lacerata grazie ad un erroneo concetto
di comunicazione che si basa sulla spettacolarizzazione
e sulla mediocrità.
Analizzare certi processi è l’occasione per provare ad invertire
queste tendenze,
iniziando a porsi delle domande,
uscendo dalla retorica per tutti i gusti,
per dare un nuovo significato al concetto di identità,
partendo dal postulato essenziale
per cui interrogarsi viene prima di proporre.
Il patrimonio appartiene a tutti:
le strade, i vicoli, gli edifici, i muri,
fanno ugualmente parte della nostra eredità.
Iniziare una ricerca sociale dettata
da un maggiore bisogno di responsabilità,
da un maggiore bisogno di responsabilità,
portare avanti una dialettica del confronto,
concretamente legata alla realtà
per un maggiore approfondimento dei contesti specifici,
per un maggiore approfondimento dei contesti specifici,
può creare un vero legame tra il singolo e la collettività,
dove flussi di storie e memorie che
raccontano comportamenti regolamentati,
raccontano comportamenti regolamentati,
possono dare vita a una quotidianità sensibile e variegata.
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